Ridurre l’orario, redistribuire la ricchezza prodotta. Intervista a Fausto Durante
Dal mondo dell’industria, a partire da quella automobilistica, arrivano segnali di un cambiamento totale nel sistema di produzione. Per Fausto Durante, responsabile delle politiche industriali e dell’innovazione della CGIL nazionale, il sindacato deve accompagnare e sostenere questo cambiamento, reclamando in tutto il mondo un nuovo modello di produzione ecologicamente sostenibile e al contempo di rimettere al centro i lavoratori aumentando diritti e salari. Gli scioperi del sindacato americano United Automobile Workers (UAW) e la vittoria contro Amazon al Queens di New York testimoniano come anche negli Stati Uniti di Donald Trump i segnali di cambiamento siano presenti.
Rapporto Diritti Globali: Il declino industriale dell’auto è un po’ il paradigma del cambio di modello produttivo. La Germania – un tempo locomotiva d’Europa – tira il freno portandosi dietro anche l’Italia. Quali saranno le conseguenze sul continente e in Italia?
Fausto Durante: È indubbio che l’insieme dell’industria europea dell’auto sia rimasta indietro rispetto ai progressi tecnologici e agli scenari di previsione sul futuro del concetto di mobilità. Ed è altrettanto vero che i due principali sistemi produttivi europei del settore auto di un tempo, ossia la Germania e l’Italia, presentino – sia pure con caratteri diversi e non paragonabili – tutti i segni di una crisi strutturale. Per quanto riguarda l’Italia, con le decisioni prese dal management di ciò che una volta era la FIAT, nel silenzio assordante dei governi degli ultimi vent’anni, si è scelta la strada del progressivo disimpegno dagli investimenti e dalla presenza nel nostro Paese, a favore di uno spostamento del baricentro produttivo verso gli Stati Uniti d’America e le fabbriche della Chrysler, mentre le sedi amministrative e fiscali sono state trasferite in Paesi a condizioni fiscali vantaggiose. Si è, cioè, spezzato il legame storico tra la FIAT e l’Italia. Un dato confermato dal fatto che nel nostro Paese oggi si producono meno auto della Spagna o della Slovenia, mentre il cuore e la mente di FCA si collocano sempre più saldamente oltre Atlantico. La Germania non ha perso la leadership nel settore auto in Europa, ma di certo ha pagato un prezzo notevole sia per il caso “Dieselgate”, con lo scandalo dei test sugli scarichi alterati per farli rientrare in modo fraudolento nei limiti stabiliti dalla legislazione per le emissioni, sia per il ritardo sugli studi e gli investimenti sui veicoli elettrici, che tutti gli esperti reputano essere la frontiera del futuro. Sui motori elettrici e sulle tecnologie connesse, compresa la questione delle batterie, nonché sulle sfide aperte dalle possibili evoluzioni dei motori a idrogeno, oggi la competizione è tra gli USA e la Cina, con l’Europa a fare da comprimaria. La Germania sta lavorando per recuperare, questo è evidente. Quanto all’Italia, se pensiamo che per ogni addetto diretto dell’auto vi sono quattro posti di lavoro nella componentistica e se aggiungiamo che il nostro è il principale Paese proprio nell’area della componentistica, appare chiaro che ci serve uno sforzo straordinario di investimenti e di innovazione tecnologica. Altrimenti, le conseguenze in termini di diminuzione di posti di lavoro e di ulteriore scivolamento dell’Italia nelle graduatorie internazionali del settore potrebbero essere estremamente gravi. Ecco, questo è un pezzo ancora oggi rilevante del nostro apparato produttivo, per il quale sarebbe necessario un nuovo e diretto protagonismo del governo e un’assunzione di responsabilità, magari sollecitata proprio dalle autorità nazionali, della proprietà dell’unico soggetto produttore di auto rimasto nel Paese.
RDG: In Germania, però, tutto “il sistema Paese” si è unito per immaginare e progettare un settore automotive completamente nuovo con tecnologie ambientalmente sostenibili. È la strada giusta ed esportabile anche da noi?
FD: Non è mai agevole, e spesso non è utile, fare comparazioni tra sistemi nazionali diversi e modelli altrettanto differenti sia delle relazioni tra le parti sociali che della rappresentanza del lavoro. E, tuttavia, non si può fare a meno di notare come in Germania siano ancora molto forti la cultura della coesione della società e la pratica del coinvolgimento permanente degli attori sociali nella vita pubblica e nelle scelte fondamentali della nazione. Si tratta, come è evidente, dell’opposto della teoria della disintermediazione messa in atto da governi di varie colorazioni politiche nell’Italia degli ultimi anni. Inoltre, non bisogna dimenticare la presenza del meccanismo della Mitbestimmung, cioè di quel peculiare sistema di codeterminazione, che dà ai rappresentanti dei lavoratori il diritto di sedere nei consigli di sorveglianza delle imprese e di discutere delle scelte strategiche e delle decisioni industriali rilevanti, con pari dignità rispetto ai rappresentanti degli azionisti. È evidente che un contesto di questa natura porta quasi naturalmente all’adozione di scelte condivise e a un prevalere del bene comune e del vantaggio collettivo rispetto ai pur legittimi interessi solo di parte. Personalmente, ritengo non da oggi che all’Italia farebbe molto bene instaurare meccanismi efficaci di democrazia economica e che un protagonismo diretto dei lavoratori attraverso adeguate procedure di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori stessi avrebbe un impatto positivo sulla performance complessiva del nostro sistema economico e produttivo.
RGD: Dall’altro lato dell’Atlantico la ricetta è invece molto diversa. Trump continua ad avere e a inseguire i voti dei lavoratori della “rust belt” e di Detroit facendo leva su un modello energivoro. Il consenso sembra premiarlo.
FD: È vero, il consenso sembra premiare ancora Donald Trump, sull’onda di quel fenomeno di risposta emotiva e di protesta di gran parte del mondo del lavoro nell’Occidente verso le storture di una globalizzazione non regolata. Una globalizzazione che ha accentuato gli squilibri nella distribuzione della ricchezza, aumentato le diseguaglianze, lasciato mano libera alla finanza e alle multinazionali. Va detto, però, che cominciano a infittirsi nella società statunitense i segnali di dissenso rispetto alla gestione concreta delle principali questioni su cui Trump ha fondato le sue politiche. Il sindacato statunitense, pur vivendo una fase ancora critica sul piano organizzativo e delle risorse, sta recuperando credibilità e forza, come dimostra il recente sciopero organizzato da UAW proprio nel settore auto alla General Motors. Le forze organizzate della società civile che si battono per un nuovo modello di consumi e di utilizzo del territorio hanno messo a segno qualche mese fa un risultato importante, bloccando un progetto di insediamento invasivo e a forte impatto urbanistico che un gigante del calibro di Amazon avrebbe voluto realizzare nel quartiere di Queens a New York. Su un altro piano, il contrasto solo muscolare e respingente al fenomeno migratorio sta facendo emergere divergenze di opinione che non riguardano più solo i frequenti pronunciamenti dei tribunali che bocciano i provvedimenti di Trump ma lo stesso concetto di società e di integrazione su cui si fonda il Paese, mentre tra le fasce più giovani aumentano le simpatie verso le idee progressiste di figure come Alexandria Ocasio-Cortez o Bernie Sanders. Per la verità, anche nella comunità dell’economia e dell’impresa cominciano a emergere preoccupazioni sulla guerra commerciale scatenata da Trump e sui rischi della “confrontation” con la Cina, che può portare vantaggi (anche elettorali) di breve periodo, ma che rischia di aprire scenari di instabilità nel futuro. Nello stesso tempo, emergono critiche alla pura e semplice impostazione liberista del fare impresa, come confermato da un recente documento nel quale numerosi boss e manager di grandi aziende multinazionali riconoscono che l’attività economica non deve avere come unico obiettivo il guadagno degli azionisti delle imprese ma ha il dovere di porsi il tema della responsabilità sociale e del benessere collettivo, oltre che – a proposito di modello energivoro – della sostenibilità ambientale e dell’impatto delle produzioni sul clima e sulle sue modificazioni. Insomma, il quadro è complesso e gli USA sono, come sempre, in movimento. Bisogna augurarsi sviluppi positivi.
RDG: In Italia il piano “Industria 4.0” che puntava sull’innovazione tecnologica digitale sembra essere stato rilanciato dal nuovo governo Conte. È lo strumento adatto per rilanciare la crescita industriale?
FD: L’idea ispiratrice del piano Industria 4.0 è sicuramente condivisibile e indica una giusta direzione di marcia. I limiti del piano, a mio avviso, stanno in primo luogo nella non sufficiente dotazione di risorse finanziarie e, in secondo luogo, nella sola logica degli incentivi alle imprese, senza una adeguata selezione e una definizione di obiettivi prioritari per rispondere alla sfida dell’innovazione del sistema produttivo italiano. Un sistema che possiede diverse eccellenze e punti alti di innovazione e capacità competitiva ma che nell’insieme ha bisogno di un’iniezione robusta di stimoli e di risorse per adeguare la sua struttura complessiva. Una struttura la cui efficienza risente del calo drammatico degli investimenti privati e pubblici dell’ultimo decennio, del ridimensionamento di comparti in cui un tempo eravamo tra i Paesi leader (auto e siderurgia su tutti), della gracilità della struttura proprietaria e della consistenza dimensionale delle imprese, non adeguata a una competizione globale e con competitori che aumentano il tratto del gigantismo, dalle difficoltà di accesso al credito. Se il governo Conte 2 intende rilanciare quel piano, come pare, dovrà lavorare sull’insieme di questi limiti. Vorrei dire, in aggiunta, che ogni intervento pur giusto di politica industriale rischia di produrre risultati parziali se non si mette mano, in maniera prioritaria, alle questioni che riguardano il lavoro. Un lavoro che in Italia deve tornare a essere stabile e di qualità, con tutele e diritti, non precario e dagli incerti caratteri. Un lavoro che si deve fondare su formazione e competenze adeguate e, insieme, su un salario in grado di esprimerne il valore e di permettere di vivere con la necessaria serenità. In Italia abbiamo l’urgenza di ricostruire un quadro giuridico di certezze e tutele nel lavoro, a partire dal superamento del cosiddetto Jobs Act. E abbiamo una gigantesca questione salariale che va assolutamente affrontata, sia concentrandosi sugli aumenti salariali come principale risultato della contrattazione collettiva, sia con interventi sulla struttura del prelievo fiscale da parte del governo e del Parlamento.
RDG: La paura che il cambiamento tecnologico si porti dietro una diminuzione dell’occupazione è una sfida epocale per il sindacato. Come giocarla senza rischiare di essere percepiti come retrogradi?
FD: Il sindacato è per sua natura forza del cambiamento e della trasformazione. Per questo noi non possiamo avere un atteggiamento distruttivo e dai tratti luddisti rispetto alla nuova rivoluzione industriale e all’impatto delle moderne tecnologie, tanto sul modello di impresa quanto sulle condizioni di lavoro. Ciò di cui bisogna avere consapevolezza, però, è il rischio che il grande cambiamento tecnologico e produttivo in corso, provocato dai fenomeni della robotizzazione dei processi industriali, da un lato, e della gig economy dall’altro, possa non produrre effetti benefici per il mondo del lavoro e per l’insieme della società, come invece è sempre avvenuto per le precedenti esperienze di cambiamento epocale del sistema industriale. La predicazione neoliberista degli ultimi tre decenni ha messo al centro del sistema valoriale i guadagni dell’impresa, la creazione di valore per gli azionisti, la dimensione finanziaria nella vita aziendale. Il lavoro, l’importanza e la centralità del suo apporto, la necessità di un equilibrio nei rapporti con l’impresa e nella giusta distribuzione della ricchezza generata nell’attività economica, tutto ciò è stato messo da parte e sacrificato davanti al totem del primato dell’impresa. Ora, io credo che il sindacato non possa accettare che tutti i vantaggi prodotti dalle nuove tecnologie siano destinati solo ai bilanci aziendali, né che possa assistere passivamente al processo di parziale, ma sempre più consistente, sostituzione di lavoro umano con macchine e robot. Le innovazioni della robotica nelle catene di montaggio e negli stabilimenti di produzione certamente distruggeranno posti di lavoro, ma ne creeranno altri nel campo dell’assistenza e della manutenzione delle nuove macchine. Abbiamo già osservato questi fenomeni di “distruzione creativa” nelle aziende del nord Europa dove la nuova robotizzazione ha già avuto luogo. E abbiamo anche maturato una sufficiente esperienza su come gli algoritmi delle piattaforme nella logistica, nella ristorazione, nei servizi turistici e alberghieri, stiano creando le condizioni per la formazione di un nuovo esercito di precari. Tecnologici e digitali, certo, ma sempre precari, ipersfruttati e sottopagati. Se questo è il quadro, credo che il sindacato debba porsi almeno tre grandi obiettivi. Il primo è quello di garantire a tutti i lavoratori la possibilità di accesso a piani formativi e a programmi di aggiornamento professionale in grado di mettere ciascuno nella condizione di affrontare i cambiamenti tecnologici e produttivi senza rimanerne vittima. Dobbiamo permettere a tutta la forza lavoro in attività, quale che sia l’età, di padroneggiare un tablet, di saper utilizzare un visore di realtà aumentata, di manovrare una stampante tridimensionale. E lo dobbiamo fare soprattutto per i lavoratori più anziani, per i quali i rischi derivanti dalla scarsa dimestichezza con le nuove tecnologie sono più alti. Il secondo grande obiettivo è quello del tempo di lavoro. Tutte le previsioni e gli studi ci dicono che nel futuro si produrrà molto di più con sempre meno apporto di lavoro umano. Se questo è vero, come credo sia, il tema della redistribuzione e della riduzione dell’orario di lavoro si propone come questione centrale, per gestire in modo socialmente responsabile e sostenibile uno degli effetti più rilevanti della nuova rivoluzione industriale. Il terzo grande obiettivo è quello della crescita dei salari. Mettiamola così, anche piuttosto rozzamente: i robot e le macchine possono costruire prodotti e offrire servizi, al pari degli esseri umani. Questi ultimi, a differenza dei primi, possono anche acquistare quei prodotti e quei servizi, se dispongono di un salario che permetta loro di farlo e di garantire al contempo una vita dignitosa e libera dal bisogno a sé stessi e alle proprie famiglie. Altrimenti, chi e come potrà godere dei risultati di tutte le innovazioni tecnologiche del XXI secolo?
RGD: La sua esperienza nel sindacato internazionale le permette di poter giudicare lo stato dell’arte nei vari continenti. Quale grado di salute ha il sindacato a livello globale?
FD: Quando i lavoratori non stanno bene, come è oggi, il sindacato non può essere in grande forma. Questo è vero per i sindacati nazionali, ma è vero soprattutto per le grandi organizzazioni sovranazionali come la Confederazione Europea dei Sindacati e la Confederazione Sindacale Internazionale, di cui la CGIL e gli altri sindacati italiani fanno parte. Il sindacato europeo non è riuscito a contrastare con la necessaria forza le politiche ispirate ad austerità e rigore della Commissione Europea, negli anni bui di Barroso come in quelli, meno aspri ma pur sempre duri per i lavoratori, di Jean-Claude Juncker. C’è da augurarsi che la nuova squadra di direzione, definita con il congresso della CES dello scorso maggio a Vienna, sappia mettere in atto la discontinuità di cui c’è bisogno e si batta per affermare il punto di vista dei lavoratori europei nel quinquennio aperto con le ultime elezioni per il Parlamento Europeo.
Il sindacato mondiale ha perso, a mio avviso, l’opportunità di aprire una pagina nuova con il congresso dello scorso dicembre a Copenaghen. Con una maggioranza estremamente risicata, è stata purtroppo riconfermata una leadership debole, che nel corso degli ultimi anni non ha saputo proporsi come valida controparte rispetto agli organismi economici e finanziari internazionali. La CGIL ha molto lavorato per un cambiamento radicale delle modalità di azione del sindacato mondiale e, in effetti, l’esito del congresso ha mostrato quanto questa esigenza sia avvertita, nel movimento sindacale in tutto il mondo. È un cambiamento di cui c’è bisogno, per affermare con maggiore determinazione il ruolo dei lavoratori nelle società del futuro.
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Fausto Durante: attualmente è responsabile delle politiche industriali e dell’innovazione della CGIL nazionale. È stato responsabile delle Politiche europee e internazionali della CGIL dal 2012 all’inizio 2019 e componente del Comitato esecutivo della Confederazione Europea dei Sindacati. In precedenza, ha maturato una lunga esperienza nel sindacato dei metalmeccanici. Dal 1993 al 2000 è stato segretario generale della FIOM di Lecce; dal 2000 al 2004 è stato responsabile dell’Ufficio Europa della FIOM nazionale, componente del Comitato esecutivo della Federazione europea dei metalmeccanici, coordinatore dei Comitati aziendali europei di General Electric Oil&Gas, di Electrolux e di Ilva; dal 2004 al 2010 è stato segretario nazionale della FIOM con delega alla siderurgia, al settore ICT, all’industria ad alta tecnologia, alla componentistica auto.
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* Dal 17° Rapporto Diritti Globali – Cambiare il sistema, a cura di Associazione Società INformazione, Ediesse editore
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