by Leonardo Clausi * | 2 Febbraio 2020 9:24
LONDRA. Ieri era il giorno uno dell’anno zero della Gran Bretagna “post”-Brexit. Il momento, ugualmente agognato e temuto da quattro anni, che ha richiesto tre primi ministri, due tornate elettorali, infinite negoziazioni, è alfine venuto venerdì sera alla mezzanotte, ora di Bruxelles. Mentre innumerevoli Union Jack sparsi in varie istituzioni europee erano in corso di accurato ripiegamento dopo essere state ammainate, ci si è abbandonati chi al dolore, chi alla gioia. Avvolti in un tripudio di stendardi, molti leaver sono scesi a Parliament Square per intonare inni e sentire Nigel Farage che diceva cose come «Questo è il momento più grande nella storia moderna della nostra grande nazione» e altre dimesse dichiarazioni. Non solo fascisti e non solo Tory da catalogo, la maggior parte dei celebranti faceva pensare al pubblico di un raduno automobilistico, con in mezzo qualche biker perché anche le due ruote hanno i loro diritti. È un po’ questo il significante socioculturale dell’anglopopulismo.
SIMILI CONGREGAZIONI si sono avute in molte città, e nel complesso pacificamente: soltanto sei gli arresti per ubriachezza molesta tra Londra e Glasgow. Fino al climax quando, registrati, dei ben noti rintocchi hanno scandito solennemente gli ultimi secondi di un matrimonio di convenienza durato quarantasette anni. Assente giustificato per motivi di salute il Big Ben stesso, l’immagine proiettata – forse un tantino strapaesanamente – sulle chiare, magnifiche linee georgiane di Downing Street. Mentre il simil-raduno automobilistico imperversava nelle piazze del giorno dell’“indipendenza”, le scrivanie liberal producevano reazioni di segno opposto.
Ma di tutte le proteste la più emotivamente potente è stata forse quella del gruppo Led by Donkeys: hanno proiettato sulle bianche scogliere del Kent due reduci della seconda guerra mondiale che invitano la posterità a preservare quello per cui loro hanno combattuto. Roba da lucciconi agli occhi.Esemplare dell’inconsolabile cordoglio dei remainer sconfitti, un pezzo di Ian McEwan sul Guardian[1] di ieri è probabilmente la più sdegnata, quasi ingiuriosa orazione funebre letta finora sull’accaduto.Sul filo di una più dissimulata commiserazione il terzo canale radio della Bbc: trasmette da giorni la Nona di Beethoven – l’inno ufficiale dell’Unione Europea – a go-go con la scusa dell’anniversario della nascita di Ludovico van.
E ADESSO? BREXIT, questo feticcio identitario d’oltremanica, ha tatuato nella psiche collettiva l’aut-aut tra l’essere leaver o remainer, pesantemente sconocchiato i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, piegato allo stremo la pur assai flessibile costituzione, messo due premier contro il parlamento per poi travolgerli, spaccato i due partiti tradizionali di maggioranza – tramutando quello che ha appena stravinto le elezioni in una setta di sovreccitati megalomani – accelerato di molto il processo di disgregazione dell’Unione, diviso famiglie, coppie, ostacolato il concepimento di bambini che forse non vedranno mai la luce: ma, come direbbe Hunter T. Thompson, ha anche avuto degli effetti negativi. Primo fra questi, la pars construens della grande avventura “oltre l’Ue”: si è per miracolo riusciti a ultimare quella destruens, di solito più facile, e a tanto prezzo, che già al rintocco registrato del Big Ben subentra il ticchettio nervoso di un altro conto alla rovescia. Quello degli undici mesi a disposizione per negoziare qualcosa d’immenso, ancora in buon parte indefinito e soprattutto, dove gli umori possono annerirsi in un attimo. Sì perché la spada di Damocle del no deal è ancora lì che penzola sul capo del color del grano del premier.
* Fonte: Leonardo Clausi, il manifesto[2]
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