Climate change. Il padrone di Amazon annuncia donazione da 10 miliardi
La decisione un mese dopo che l’azienda ha minacciato di licenziare i dipendenti che l’avevano sollecitata a prendere posizione sulla crisi climatica. Il ruolo delle lotte dentro le grandi aziende e i dilemmi politici della filantropia digitale
Jeff Bezos, il fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post, l’uomo più ricco del pianeta con un patrimonio da 130 miliardi di dollari, ha annunciato che donerà 10 miliardi di dollari per salvare l’ambiente. Il Bezos Earth Fund inizierà a distribuire il denaro quest’estate, ha detto ai suoi 1,4 milioni di seguaci su Instagram. Il suo progetto è finanziare con borse di studio scienziati, Ong e attivisti nella lotta contro il cambiamento climatico.
L’annuncio sembra contraddire le azioni di Amazon nei confronti dei dipendenti che hanno chiesto un impegno serio per cambiare le politiche di trasporto. Per Climate Watch, l’azienda produce ogni anno 44,4 milioni di tonnellate di Co2, l’equivalente di oltre il 10% delle emissioni complessive annue della Francia. A gennaio il Guardian ha rivelato che diversi lavoratori sono stati avvertiti di stare zitti o, in caso contrario, sarebbero stati licenziati. L’avvertimento è giunto dopo l’annuncio a settembre 2019 di un «impegno per il clima» da parte dell’azienda . Il piano impegna Amazon a utilizzare il 100% di energia rinnovabile entro il 2030, prima di diventare «neutrale» entro il 2040. Per contribuire a raggiungere questo obiettivo, Amazon ha ordinato 100 mila veicoli completamente elettrici per la sua flotta. L’impegno di Bezos ha suffragato la sua immagine di avversario del presidente Trump, climatoscettico, carbofascista e negazionista. È stato tuttavia notato che la presentazione del piano è avvenuta un giorno prima che 1.500 dipendenti di Amazon decidessero di scioperare e unirsi alle manifestazioni contro l’emergenza climatica ispirate da Greta Thunberg previste alla fine del mese anche negli Usa.
Alcuni ritengono che Bezos dovrebbe usare il denaro per pagare più tasse, salari più alti ai lavoratori e una politica diversa di rapporti sindacali, oltre a rispettare coloro che con l’azione politica l’hanno spinto a fare questa serie di annunci. Altri sostengono che questi soldi dovrebbero finanziare un fondo per la lotta politica a livello globale, a cominciare dal contrasto dei lobbisti dell’industria del petrolio e del gas. In questi casi si parla di un giro di affari pari anche a 200 milioni di dollari all’anno in campagne di vario genere solo negli Stati Uniti.
È sempre meglio avere 10 miliardi di dollari investiti, a qualche titolo, nella difesa del pianeta. Ma allora si tratterà di capire come saranno investiti, con quali criteri, e con quali fini. Da un lato, c’è l’ombra del «greenwashing», pratica consolidata al punto che i grandi fondi di investimento mondiali come Blackrock, e tutti i principali investitori azionari e obbligazionari mondiali puntano sulla transizione «verde» del capitalismo. E, con loro, milioni di risparmiatori e lavoratori in tutto il mondo. Queste non sono solo operazioni di marketing, ma sono le tracce di enormi capitali che si spostano dall’industria fossile a quella delle energie alternative. Quella in corso è una ristrutturazione capitalistica. Dall’altro lato, ci sono gli enigmi anche morali del filantropismo dei miliardari della Silicon Valley.
Tutti i grandi ricchi da Bill Gates a Mark Zuckerberg si dedicano a questa pratica, anche per questioni fiscali. Un primo paradosso è che questo avviene in un paese che non prevede l’accesso a un welfare universale ai suoi cittadini e non prevede un sistema di tassazione di queste enormi fortune capaci di finanziarlo. Un secondo paradosso deriva dall’uso «etico» di fondi ottenuti da un’organizzazione capitalistica del lavoro sfruttato. Può essere apprezzabile che un miliardario si senta in obbligo di «dare qualcosa in cambio». Ma se sente il bisogno di restituire qualcosa, forse questo significa che ha preso troppo.
* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto
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