by Anna Maria Merlo * | 13 Febbraio 2020 11:09
La strada per il Green New Deal europeo, su cui si è impegnata la nuova Commissione di Ursula von der Leyen, è in salita e tortuosa. Un esempio eclatante delle difficoltà e del peso di interessi incrociati è il risultato del voto di ieri al Parlamento europeo. Gli eurodeputati si sono espressi su una proposta di veto avanzata da Verdi e Sinistra unita contro i progetti di interesse comune del programma Connecting Europe Facility[1], la quarta lista presentata dalla Commissione (lo fa ogni due anni), il 31 ottobre scorso, cioè dal precedente esecutivo presieduto allora da Jean-Claude Juncker.
In questo pacchetto ci sono 151 infrastrutture, tra cui 32 progetti relativi al gas (in realtà 55, ma la Commissione ne ha accorpati alcuni), che chiaramente non rispettano l’impegno del Green New Deal di promuovere «un settore energetico europeo basato su fonti rinnovabili, corredato da una rapida eliminazione del carbone e del gas di natura fossile», per fare dell’Unione europea la prima area mondiale a emissioni zero di Co2 entro il 2050. Ma gli eurodeputati hanno respinto il veto con 394 voti contro 241 (tra questi progetti, per l’Italia c’è il Tap Mar Caspio-Puglia, l’EastMed Cipro-Salento, il gasdotto Malta-Gela e delle infrastrutture nel nord).
Si tratta di un pacchetto di 29 miliardi, che secondo i numerosi detrattori farà spendere inutilmente questo denaro. Ma gli operatori del settore energetico e i paesi che devono rinnovare le infrastrutture (specialmente all’est) hanno fatto pressione. Un deputato rumeno ha spiegato che questi progetti sono «un ponte! verso un futuro di energie pulite. Un deputato del Ppe ha sottolineato che è urgente permettere ai Baltici di emanciparsi dalla dipendenza dalla Russia nel settore energetico. Per il Ppe «ha prevalso il buon senso», perché se fosse passato il veto contro la quarta lista sarebbe rimasta in applicazione la terza, stilata nel 2017.
La vigilia, c’era stato un tentativo del gruppo Renew Europe, con una lettera al commissario all’Energia, Kadri Simson e al vice-presidente che si occupa del clima, Frans Timmermans, di chiedere alla Commissione si esaminare i 32 progetti alla luce dell’impegno sul Green New Deal, che è del resto un impegno del nuovo esecutivo. «Ipocrisia» per Verdi e Sinistra, i 5Stelle hanno votato con loro. Ma Timmermans ieri si è impegnato a esaminare la compatibilità dei progetti: «Per ricevere i fondi, i progetti dovranno rispettare le ambizioni del Green New Deal».
In particolare, due progetti focalizzano l’indignazione: uno in Irlanda a Shannon, l’altro in Croazia a Krk, che prevedono finanziamenti per importare gas dagli Usa prodotto attraverso il fracking. Gli Usa fanno pressioni molto forti sui paesi europei per imporre il loro gas, estratto con una tecnica che porta grande pregiudizio all’ambiente.
Dopo l’inciampo del voto di ieri, la Commissione adesso è attesa su una nuova direttiva relativa alla decarbonizzazione del gas. La strada sarà lunga. Il Meccanismo della Giusta Transizione prevede investimenti per mille miliardi in dieci anni (con l’effetto-leva, non sono soldi freschi) per non lasciare nessuno sul bordo della strada. La Bei (Banca europea degli investimenti) si è impegnata a non dare più prestiti per le energie fossili, cominciando dalla redazione di una nuova tassonomia. Ma anche qui i tempi saranno lunghi, si inizia con un 50% entro il 2025.
La Germania è molto prudente. La Francia è in ritardo. Ieri, Emmanuel Macron era sul Monte Bianco e ha parlato di un programma di protezione. Ma si tratta soprattutto di adattamento progressivo al cambiamento climatico, più che di vera svolta decisiva, in attesa di eventuali sorprese positive dai risultati della Convenzione civica per il clima, i 150 cittadini tirati a sorte che dovranno presentare le loro conclusioni il 4 aprile.
* Fonte: Anna Maria Merlo, il manifesto[2]
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