Sciopero generale in India, 250 milioni in piazza contro Modi
La settimana che sta per concludersi è probabilmente la peggiore che si ricordi, politicamente, da quando l’uomo forte del Bharatiya Janata Party (Bjp) Narendra Modi ha preso in mano le redini della locomotiva indiana, ormai nel «lontano» 2014.
Mercoledì dieci sigle sindacali hanno portato in piazza oltre 250 milioni di lavoratori, tra impiegati, operai e contadini, nello sciopero generale più numeroso che la storia ricordi.
La mobilitazione, che ha interessato gran parte del Paese con picchi di presenze in Bengala Occidentale e Kerala, è stata chiamata per opporsi alle misure «anti working class» proposte dal governo Modi per rivitalizzare l’economia indiana.
NEL MIRINO, IN PARTICOLARE, il progetto di accorpare una serie di istituti bancari locali e, soprattutto, di «svendere» due compagnie simbolo del Paese: Air India e Bharat Petroleum.
Secondo l’esecutivo, la privatizzazione delle due compagnie è a questo punto necessaria, a fronte di anni chiusi in passivo ripianati dalle casse di New Delhi. Si tratta almeno di una mezza verità: il colosso petrolifero indiano nel 2019 ha chiuso l’anno fiscale con un attivo di oltre un miliardo di dollari.
I sindacati hanno chiesto al governo di introdurre una serie di misure per aiutare i lavoratori indiani: un programma ad hoc per creare impiego, salario minimo garantito a 15mila rupie al mese (poco più di 190 euro) e un sistema pensionistico che copra tutta la forza-lavoro indiana, stimata dalla Banca Mondiale appena sotto i 520 milioni di persone.
Richieste che i manifestanti sperano siano considerate dall’esecutivo in vista della prossima finanziaria, che il governo annuncerà il primo febbraio, ma che difficilmente rientreranno nel budget previsto da un Bjp sostanzialmente accerchiato da tutti i fronti, economia inclusa.
Il 7 gennaio New Delhi ha annunciato le stime di crescita del Pil per il prossimo anno, ferme a un misero 5 %: mai così basse dal 2008 e radicalmente inferiori allo scorso anno, 6,8%.
IN SETTIMANA MODI ha tenuto una serie di meeting con economisti e imprenditori presso la sede del Niti Ayoog: think-tank governativo inaugurato nel 2015 sostituendo la Planning Commission, l’organo di socialista memoria deputato a stilare il piano quinquennale. A margine dell’ultimo incontro, Narendra Modi ha dichiarato che i fondamentali dell’economia sono sani e che l’India concentrerà le proprie energie per diventare un’economia da 5 trilioni di dollari.
Un’impietosa analisi firmata da Prabhash K Dutta per India Today racconta un altro paese: il manifatturiero crescerà del 2%, record negativo dal 2006; il settore edile del 6,8%, dato peggiore dal 2011; gli investimenti non arriveranno nemmeno all’1% di crescita, record negativo degli ultimi 15 anni. Senza contare la disoccupazione, che lo scorso ottobre si è attestata all’8,5%: letteralmente, mai così male dal 1947.
LA GRAVE SITUAZIONE economica che il paese sta affrontando non è l’unica preoccupazione di Modi. Da settimane milioni tra studenti e società civile manifestano in tutte le principali città contro le politiche settarie che l’esecutivo sta introducendo per «liberarsi» della consistente minoranza musulmana. Dal passaggio della nuova legge per la cittadinanza – che discrimina i richiedenti di fede islamica provenienti da Afghanistan, Bangladesh e Pakistan – gli oppositori hanno presidiato piazze e università, scontrandosi con la repressione violenta delle autorità.
Esemplare l’episodio gravissimo occorso alla Jawaharlal Nehru University (Jnu) domenica scorsa, quando i collettivi di sinistra sono stati aggrediti all’interno del campus da un gruppo di uomini a volto coperto, senza che la polizia intervenisse.
L’India che non cresce e delle teste degli studenti aperte dai manganelli della polizia non è mai sembrata così lontana dalla presa della propaganda modiana, eccezionale nel promuovere un Indian Dream imminente. Che sia il 2020 invece l’anno del risveglio per la più popolosa democrazia del mondo?
* Fonte: Matteo Miavaldi, il manifesto
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