Benedetto Vecchi, un intellettuale dai piedi scalzi, uno degli «infelici molti»
Da anni Benedetto era intento a morire nel modo più alacre che si possa immaginare: studiando, scrivendo pagine non futili (cioè: non introverse), detestando gli intellettuali con i mocassini e facendo comunella con quelli dai piedi scalzi (era uno di loro, del resto), censendo con buonumore i sintomi di rivolte prossime venture, soccorrendo generosamente coloro che cercavano di soccorrerlo. Una morte pubblica, gremita di voci, mai priva di solidarietà nei confronti di chi resta e vorrà parlarne. Poiché lo scemare del suo tempo è diventato, esso pure, un episodio della prassi sovversiva, agli amici veniva da pensare che Benedetto sarebbe durato indefinitamente. È la sola eternità che noi materialisti possiamo concederci.
HO CONOSCIUTO Benedetto nel 1988, quando cominciai a lavorare alle pagine culturali de il manifesto. Non era ancora un redattore, Benedetto, ma un tecnico informatico. Lo divenne poco dopo, timido e circospetto, vorace di libri e di idee. Sapeva di non appartenere alla tribù degli happy few, dei letterati «felici pochi» che spacciano citazioni come eroina tagliata pur di scansare qualsivoglia pensiero, sempre pronti a rifugiarsi in un soave borgo campagnolo quando l’epoca ruggisce.
DOTATO DELLE QUALITÀ, e anche della durezza, degli unhappy many, degli «infelici molti» di cui è composto il proletariato moderno che lavora con il linguaggio, Benedetto capì in fretta come orientarsi nel corso della grande trasformazione del modo di produzione capitalistico, delle forme di vita, dei gerghi e delle tonalità emotive. Cercammo e trovammo insieme nomi provvisori, a volte maldestri, per designare quella trasformazione e la sovversione che essa covava in seno: lavoro cognitivo, intellettualità di massa, rivoluzione come esodo, democrazia non rappresentativa.
Ricordo Benedetto nei seminari parigini degli anni Novanta, da cui nascerà la rete politica e intellettuale chiamata Euronomade. La sua curiosità. L’emozione accuratamente celata quando conobbe Toni Negri e gli altri esuli, insomma i bersagli viventi del pogrom contro la sinistra rivoluzionaria. Fu allora che Benedetto inciampò, per così dire, nel concetto cui avrebbe dedicato le sue energie fino a ieri: il general intellect, l’«intelletto generale» di cui parla Marx come dell’autentico pilone della produzione sociale. Il pensiero, il sapere, il linguaggio messi al lavoro, fonte eminente del profitto: d’accordo, disse Benedetto, ma in che modo, per quali vie, mediante quali procedure? Le sue riflessioni sulla rete informatica, contenute in innumerevoli articoli e in due libri pregevoli, sono un tentativo di rispondere a questi quesiti di gran peso, serenamente ignorati da una sinistra raccapricciante o patetica.
SEMPRE negli anni Novanta, Benedetto partecipò a una rivista durata soltanto quattro numeri, meno effimera però di testate universitarie che si trascinano per decenni: «Luogo comune». Le riunioni di redazione furono, talvolta, adrenaliniche, certamente mai squisite di quella squisitezza letale di cui si beano gli scrutatori di anime. In quella rivista è stato detto quasi tutto l’essenziale sul tempo che viene. Coloro che vi hanno messo mano, anche quando si sono persi di vista, mantengono la tacita intesa di chi è affratellato da comuni scoperte. Con Benedetto, su certi temi e certi eventi, bastava un sorriso complice: che te lo dico a fare, amico mio?
* Fonte: Paolo Virno, il manifesto
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