Il ricordo di Piero Terracina. Ricordare i nomi che Auschwitz voleva cancellare

by Ascanio Celestini * | 10 Dicembre 2019 7:42

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Piero Terracina tiene in mano il microfono. Attorno a lui ci stanno i ragazzi delle scuole di Roma. È l’autunno del 2005 e in Polonia fa caldo come in Italia. In quello che fu il campo di sterminio Auschwitz II ci stanno i camosci. Oppure i daini. Non mi ricordo.
Però ho in mente le facce degli studenti. Uno che era tanto militante, uno di sinistra che mi ricordava come ero io alla sua età. Tanta voglia di leggere i libri che non consigliano mai a scuola, voglia di fare politica, poca voglia di studiare latino e greco.

Un altro che dice di essere di destra e poi mi hanno detto che è diventato buddista. Una ragazzina che parla con lo slang delle borgate, ma si commuove quando dice «mamma mi ha messo in valigia il maglione pesante. Adesso fa un caldo che schiumi, ma a quel tempo si congelavano». E chissà cosa la commuove. Il freddo o la madre che gli internati non avevano più. «Quando so’ arrivata a Auschwitz me so detta: me sa’ che sarà una pezza, ‘na cosa parecchio pesante». E il ragazzo di destra: «non credevo che mi avrebbe toccato così tanto. Pensavo: vabbè, vai là e senti storie, ti informi. Però alla fine è stata ‘na cosa troppo particolare, davvero forte».

E quello di sinistra dopo di lei: «lo immaginavo che era come passare un’esame, una cosa da arrivarci preparato. E poi è stato di più. Non basta la preparazione. Prima di arrivare qui o ci credi o non ci credi. Però poi lo vedi quello che è stato e allora è proprio più forte. E soprattutto perché ci stanno loro».

E loro sono i deportati che raccontano come hanno vissuto l’internamento nel campo di sterminio. Quell’anno parlano Shlomo Venezia, Andra e Tatiana Bucci, Sami Modiano, Enzo Camerino e Piero Terracina.
Quest’ultimo posa il microfono e i ragazzi cominciano a chiacchierare tra di loro.

Il giovane di destra pensa al nonno col tumore «magari stai a cena con la famiglia, pensi che lui adesso sta bene e invece devi chiamare l’ambulanza e portarlo all’ospedale». Il nazismo è come una malattia che non ti lascia mai in pace. Questo gli viene in mente. E poi un altro giovane dice che lo «colpisce il discorso che ha fatto Terracina perché è proprio verso i ragazzi…». E infatti Piero aveva 15 anni quando il 22 maggio del ‘44 è arrivato sulla Bahnrampe di Auschwitz.

«Eravamo 64 persone in un vagone e 64 persone non ci stanno. Era cominciato, ormai anzi era già in fase avanzata l’annullamento totale dell’essere umano. Mio padre lo portavano via e salutava col braccio. Mia madre ci benedice e poi: andate andate, andate via. Poi aggiunse qualche parola che io lì per lì non la capii. Dico a mio fratello: ma che cosa ha detto?
Aveva detto mia madre che aveva capito tutto. Disse: non vi vedrò più.

Ci portarono in una baracca chiamata sauna. Ci portano via per toglierci i vestiti, i capelli, i peli. Chiedo a uno sventurato come me: Dove sono i miei genitori? E lui mi fa: Vedi quel fumo del camino? Sono già usciti da lì».
«Ci venne tolto il nome» aggiunge. Così mi viene in mente quello che racconta Tatiana Bucci. Appena possibile la madre la raggiungeva nella sua baracca per bambini e le ricordava il nome. «Tu ti chiami Tatiana – diceva – e tu ti chiami Andra» aggiungeva parlando alla sorellina. «Molti bambini dimenticavano il nome» dicono. E su questo torno al discorso di Piero quando ci ricorda che: «Non si capivano le parole, si capiva soltanto il linguaggio del bastone. Il mio nome è 5506. Un numero molto semplice, ma imparate un po’ a dirlo in tedesco. E poi in quanti modi si può dire? Si può dire cinquemilacinquecentosei, cinquantacinque zero sei, cinque cinquantasei. Le SS lo dicevano così come gli capitava e bisognava capirlo senno saremmo stati puniti. Bastonati dai nostri compagni».

Quando comincia la prima lezione a scuola si fa l’appello. Da ragazzo mi sembrava una cerimonia inutile. Non è così. Alla stessa cerimonia ogni anno puoi assisterci alle Fosse Ardeatine quando si pronunciano i nomi dei 335 ammazzati dai nazisti. Il nome è importante. E ad Auschwitz è la prima cosa che venne cancellata. Ricordiamone almeno uno. Terracina Piero.

* Fonte: Ascanio Celestini, il manifesto[1]

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