by Roberto Ciccarelli * | 29 Dicembre 2019 9:55
Le dimissioni di Lorenzo Fioramonti hanno portato alla moltiplicazione dei ministeri, ma non ancora a nuovi fondi alla scuola e all’università. In tempi record il presidente del consiglio Conte ha annunciato ieri nella conferenza stampa di fine anno lo sdoppiamento dei dicasteri: alla scuola andrà la pentastellata Lucia Azzolina, già sottosegretaria all’Istruzione; all’università andrà Gaetano Manfredi, ingegnere e rettore della Federico II di Napoli, rappresentante di una parte della comunità accademica, quella dei rettori della Crui di cui è presidente dal 2015. Gli ultimi rettori ad avere occupato il ruolo di ministri dell’università (e della scuola) sono stati Francesco Profumo, Maria Chiara Carrozza e Stefania Giannini. L’ultima volta che i ministeri sono stati separati risale al 2006 quando all’università andò Fabio Mussi e alla scuola Giuseppe Fioroni. Il centrosinistra ha mostrato preferenze contraddittorie sul tema. Nel 1999 la decisione di unificare i ministeri è stata disposta dalla riforma Bassanini. Dieci anni prima, nel 1989, il contrario: le competenze furono separate. Oggi si è tornati indietro di 14 anni.
Manfredi potrà essere una diga contro il latente progetto di regionalizzazione di scuola e università che potrebbe rispuntare nel progetto di «autonomia differenziata» in discussione in questa legislatura. Il 29 maggio scorso, in occasione di un convegno a Napoli, Manfredi si è espresso contro questa ipotesi, ribadendo il rifiuto della stessa Crui. In questa chiave va interpretata il sostegno di Luigi Di Maio al neo-ministro, «un riconoscimento alle università del Sud» ha detto, e l’opposizione del governatore lombardo Fontana sostenitore della regionalizzazione: «Un’operazione da primissima Repubblica», l’ha definita.
La nomina di Azzolina, neo-preside, docente di storia e filosofia nei licei, con una laurea in giurisprudenza, sindacalista dell’Anief, è espressione dei 5 Stelle. Ha seguito i lavori sul Dl scuola e sarà al tavolo con i sindacati del 7 gennaio per i concorsi da 50 mila posti. Volto noto nei talk televisivi, è stata attaccata sui social per il suo sostegno allo Ius culturae. È prima firmataria di un decreto legge contro le «classi pollaio». Quanto all’approccio alla politica scolastica il 24 novembre scorso ha sostenuto su Facebook la validità della simulazione dell’attività imprenditoriale tra i banchi permessa dal «sillabo per l’educazione all’imprenditorialità». Questo strumento controverso e simbolico è stato definito una possibilità «per i nostri studenti di capire come funzionano le aziende (…) Il problem solving, la capacità di lavorare in modo collaborativo, di dare corpo alle proprie idee sono competenze strategiche sono le chiavi del futuro». È l’approccio che ha portato alla «Buona scuola» renziana e a vent’anni di «riforme» che hanno trasformato la scuola in un’agenzia di formazione per le imprese. Posizioni ancorate al neoliberismo mainstream, molto in voga a Viale Trastevere, e trasversalmente in tutti i partiti di destra e di sinistra che parlano di “investimenti sul capitale umano” e scambiano esseri umani per “imprenditori di se stessi”.
Lo spacchettamento e il doppio incarico sono stati, in prevalenza, salutati come l’occasione di una riappropriazione corporativa di strumenti amministrativi più efficienti da parte della scuola e dell’università. Il coro ispirato a una visione economicistica dell’istruzione e della ricerca è stato lanciato ieri da Conte: «Sembrano appartenenti alla stessa filiera, ma hanno logiche ed esigenze molto diverse» ha detto. Per Giacomo Cossu della Rete della conoscenza verrà, invece, a mancare una programmazione comune, con il rischio di «indirizzi politici diversi, potenzialmente contrastanti». Per Francesco Sinopoli, segretario della Flc-Cgil, l’operazione «segue esigenze politiche interne alla maggioranza e non una logica di governo dei settori». Il sindacato ha criticato anche la rivendicazione corporativa di Conte, ordinario di diritto, dell’Agenzia nazionale per la ricerca, il nuovo carrozzone prodotto dalla legge di bilancio. I vertici saranno di nomina politica e questo è giudicato un rischio per la libertà di ricerca. Fioramonti ha cercato di modificarlo, inutilmente. Così come inutili sono state le sue obiezioni all’obbligatorietà dei test Invalsi e dell’alternanza scuola lavoro per l’accesso alla maturità. Approvate da una sua circolare.
Non va esclusa la possibilità che i neo-ministri si ritroveranno nella fragilità che ha costretto il loro predecessore a dimettersi. Se, e quando, arriveranno i nuovi fondi, potranno chiedere di gestirli diversamente dall’attuale e iniqua modalità di distribuzione. Sarebbe anche necessaria una riforma dei principi ideologici che orientano la didattica e la valutazione della ricerca. Altrimenti, con o senza fondi, la stella polare neoliberale resterà la stessa.
* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto[1]
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