Taranto. «Crisi pilotata», offensiva di procure e Finanza contro Mittal

by Massimo Franchi * | 20 Novembre 2019 8:59

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«Crisi pilotata». Ogni giorno che passa si aggrava sempre di più la posizione giudiziaria di Mittal. Nel gioco a tenaglia delle procure di Milano e Taranto, il gigante dell’acciaio indiano che ha deciso di dire addio all’Italia rischia di essere stritolato e costretto – contro volontà – a tenere aperta Taranto e gli altri stabilimenti a lungo. Molto più a lungo del 4 dicembre da lei fissato per ridare stabilimenti e 10.700 lavoratori in mano ai commissari governativi dell’amministrazione straordinaria ex Ilva.

A due giorni dal nuovo vertice a palazzo Chigi col premer Conte, le cattive notizie per la famiglia Mittal arrivano soprattutto dalla procura milanese.

E ANCHE SE IL GIUDICE Marangoni il 27 desse torto ai commissari governativi – e ragione a Mittal – sul ricorso d’urgenza che mira a bloccare il recesso dal contratto, il gruppo indiano dovrebbe comunque attendere quanto meno il verdetto esecutivo del giudizio ordinario, la cui prima udienza è fissata il 6 maggio.

Ecco dunque che Mittal sarà comunque costretta a mantenre attivi i siti e anche li ridarà ai commissari deve tenere in conto l’eventualità di doverseli riprendere a breve.

Un po’ quello che successe – con le dovute proporzioni – a Thyssen Krupp, che aveva venduto l’acciaieria di Terni ai finlandesi di Outokumpu, e che a causa dell’Antitrust europea se l’è dovuta riprendere nel 2013.
Anche per questo ieri l’Ilva in Amministrazione Straordinaria ha scritto nuovamente a ArcelorMittal – a firma della direzione risorse umane: «Per quanto attiene al personale dipendente e alle tutele ad esso dovute nella gestione dei rapporti di lavoro dei quali avete esclusiva titolarità, vi riteniamo responsabili di ogni condotta finalizzata a dismettere tali responsabilità nel vano tentativo di abdicare alla posizione di datore di lavoro per liberarvi degli obblighi e dei doveri che ne conseguono».

Tornando alla giornata giudiziaria milanese, ieri i militari del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza si sono presentati negli uffici di ArcelorMittal in viale Brenta con un ordine di esibizione e uno di perquisizione: al setaccio gli uffici amministrativi di alcuni dirigenti, forse gli stessi – dirigenti dell’area commerciale del gruppo franco indiano – che tra la mattina e il pomeriggio sono stati sentiti come «persone informate sui fatti» dal pubblici ministeri Stefano Civardi che con il collega Mauro Clerici e l’aggiunto Maurizio Romanelli – il trio che ha scovato il tesoro svizzero da 1,3 miliardi dei Riva, ora utilizzato per finanziare le bonifiche a Taranto – coordinano l’indagine, per approfondire il capitolo «magazzino», consegnato dai commissari con 500 milioni di euro di materie prime ma che nel tempo sarebbe stato progressivamente svuotato.

CON LE AUDIZIONI SI PUNTA a capire se ci sia una discrepanza tra le materie prime ancora presenti e i contratti commerciali che hanno riguardato quel materiale.

L’ipotesi è quella di una «crisi pilotata». ArcelorMittal ha fatto perdere valore all’ex Ilva – le perdite dell’acciaieria sono aumentate in un anno- perché ArcelorMittal ha ritenuto, una volta preso atto delle difficoltà del mercato italiano, di non avere più interesse a investire nell’ex Ilva.

L’inchiesta della Procura guidata da Francesco Greco da lunedì è stata sdoppiata, con tanto di titoli di reato. In un filone si ipotizzano distrazioni di beni dal fallimento, ovvero dalla procedura dell’amministrazione straordinaria arrivata dopo il crac del Gruppo Riva. Nell’altro, manipolazione del mercato attraverso false comunicazioni che prima avrebbero rassicurato gli investitori, salvo poi annunciare a sorpresa l’addio con il recesso dal contratto di affitto e l’azzeramento della successiva acquisizione del polo siderurgico.

IN QUESTO CAPITOLO rientrano gli accertamenti per capire se la diminuzione degli ordini sia dovuta a un calo della richiesta o a un loro dirottamento su altre consociate della multinazionale. E poi anche se i prezzi per l’approvvigionamento di materie «intercompany» sono stati quelli di mercato o più alti.

L’altro fascicolo del filone milanese riguarda una società di trading lussemburghese che ha svolto attività commerciale in Italia senza saldare i conti con il Fisco. Il reato è omessa dichiarazione dei redditi a partire dal 2015 e andando, per ora, a ritroso.

* Fonte: Massimo Franchi, il manifesto[1]

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