Una repressione violentissima contro tutte le facce che la mobilitazione iniziata il primo ottobre ha assunto: quella creativa dell’autogestione di Tahrir, quella disobbediente degli scioperi e dei blocchi di porti e giacimenti petroliferi a Bassora, quella rabbiosa di chi assalta i simboli del potere, la Zona Verde nella capitale e i consolati iraniani a sud.
La strage di ieri è seguita alle fiamme appiccate alla rappresentanza diplomatica di Teheran a Najaf: i manifestanti l’hanno assaltata, sostituito la bandiera iraniana con quella irachena e poi dato fuoco all’edificio.
È successo a poca distanza dall’abitazione della massima autorità sciita del paese, l’Ayatollah al-Sistani. «Taglieremo le mani a chiunque provi a toccarlo», ha minacciato Abu Mahdi al-Muhandes, comandante delle Forze di mobilitazione popolare, le milizie sciite legate a doppio filo a Teheran.
La risposta governativa è uno Stato di polizia. Alle pallottole sui manifestanti Baghdad ha aggiunto ieri “cellule di crisi”, team di militari e autorità locali chiamati a gestire i servizi di sicurezza per fermare la protesta. Si tenta anche la via falsamente pacifica, con la rimozione del comandante dell’esercito a Nassiriya, il generale Jamil Shummary, ordinata dal premier Abdul Mahdi.
Nelle stesse ore la città, sfidando il coprifuoco imposto mercoledì nelle province meridionali, scendeva in strada per i funerali degli uccisi, che fanno salire il bilancio delle vittime in due mesi di mobilitazione a oltre 370. Più di 15mila i feriti, impossibile calcolare il numero di arrestati e desaparecidos.
Durante i funerali i manifestanti hanno circondato il quartier generale dell’esercito, protetti da uomini delle tribù che hanno preso posizione lungo le vie principali per impedire l’arrivo di rinforzi militari.
Le piazze non arretrano, dicono di non avere più paura: «Niente giustifica questa violenza contro di noi – dice un manifestante all’Ap – Il nostro sangue ribolle. Ma questa violenza non ci spaventa, siamo sempre di più».
Da perdere hanno ben poco. Le aspirazioni della rivoluzione sono radicali, come in altre parti del mondo in questi mesi: lo smantellamento dell’intero sistema di potere politico ed economico, fatto di corruzione, settarismo e liberismo selvaggio.
In Iraq si traduce in povertà, diseguaglianze strutturali e disoccupazione giovanile, nello strapotere delle compagnie petrolifere straniere che estraggono il greggio e lo vendono all’estero lasciando senza elettricità le città irachene, come nella dipendenza dall’importazione di prodotti alimentari perché la siccità e la mancata ricostruzione hanno svuotato le campagne, già poverissime.
Di questo sistema, figlio dell’occupazione Usa dell’Iraq nel 2003, la popolazione incolpa gli Stati uniti ma soprattutto l’Iran, a capo di un vero e proprio governo ombra a Baghdad.
Ieri Teheran – che da settimane lavora per rafforzare il primo ministro – ha chiesto il pugno di ferro contro i manifestanti e «comunicato il suo disgusto all’ambasciatore iracheno a Teheran», dice il ministero degli esteri della Repubblica islamica.
Più disgustoso è il silenzio globale intorno ai massacri. Li descrive un manifestante ad Amnesty: «Sparano al petto, al collo, alla testa. È come un’esecuzione. Le strade sono piene di sangue».
* Fonte:
il manifesto[1]photo by Spc. Ry Norris [Public domain]