Mittal, oggi sciopero totale. Conte incontra i sindacati: no alla via giudiziaria
Landini: serve l’ingresso pubblico subito I commissari diffidano Mittal: non potete recedere dal contratto
Il piano B ancora non c’è. Ma la nazionalizzazione si fa strada, anche perché fra 28 giorni i commissari straordinari torneranno padroni di Ilva. Contro l’addio di Mittal il governo naviga a vista ma almeno fa fronte comune con i sindacati e fissa paletti precisi: proseguimento del piano ambientale e difesa di tutti i posti di lavoro.
CONVOCATI A PALAZZO CHIGI in fretta e furia, le delegazioni di Cgil, Cisl e Uil rafforzate dai propri metalmeccanici arrivano puntuali. In ritardo è il padrone di casa Conte che è a Porta a Porta ad anticipare la strategia e cercare di fugare le critiche.
Alla vigilia dello sciopero generale di 24 ore che bloccherà dalle 7 di stamani tutti gli stabilimenti del gruppo ex Ilva da Genova a Taranto, il governo è presente nella Sala Verde al gran completo. Arriva anche Di Maio – che sottoscrisse l’accordo con Mittal l’anno scorso – di ritorno dalla Cina a dar man forte a Patuanelli.
La prima certezza è la lotta giudiziaria alla richiesta di recesso dal contratto da parte degli indiani. Se Arcelor Mittal ha chiamato in causa il tribunale civile di Milano, il governo diffida gli indiani e la ad Morselli da qualsiasi iniziativa di cessione.
LA GUERRA LEGALE PARTE con le tre pagine di lettera firmata dal direttore delle risorse umane di Ilva spa in Amministrazione straordinaria Claudio Picucci. Che manifesta a Arcelor Mittal Italia «profondo dissenso» per «la decisione di retrocedere all’Ilva i rami di azienda e i suoi dipendenti» – la «procedura relativa all’ex articolo 47». È una iniziativa «improvvida e improvvisa in palese contrasto con le dichiarazioni di intenti collaborativi e le azioni comunicateci qualche giorno addietro», accusa Picucci. «Non possiamo far altro che contestare ogni presunto, anche ipotetico, presupposto di fatto e di diritto, da voi asseritamente dedotto» e «vi diffidiamo dal voler desistere e, comunque, cessare i comportamenti sino ad oggi posti in essere e quelli preannunciati e, in particolare, dall’adottare qualsivoglia ulteriore azione di pregiudizio della tutela occupazione e reddituale dei dipendenti e dello strato degli impianti, riservandoci di agire in ogni sede competente a tutela dei nostri diritti», si conclude la missiva.
Intanto Conte annuncia che quando ci sarà il disimpegno da parte di ArcelorMittal, «il primo step sarà la gestione commissariale al Mise». In pratica si torna a prima dell’arrivo di Mittal, il lungo commissariamento partito nel 2012 quando i Riva furono arrestati.
LA SITUAZIONE RISCHIA di essere esplosiva non solo a Taranto. Ai 8.200 addetti diretti si aggiungono quelli dell’indotto e i circa 1.200 di Genova, di Alessandria, di Novi Ligure e via via lungo la penisola per arrivare a quota 20mila.
L’appello di Conte alle «istituzioni locali per essere parti civili», viene accolto subito da Michele Emiliano, che nel frattempo rilancia la decarbonizzazione di Taranto: «Come Regione Puglia sosterremo il contenzioso in atto e cercheremo di fornire al governo elementi di prova per dimostrare il dolo e forse anche la premeditazione di questo recesso da parte di Arcelor Mittal».
Poi tocca a Landini parlare. «Abbiamo cominciato a discutere di Ilva in questa sal a nel 2012. Sono passati 7 anni e 6 governi – esordisce il segretario Cgil -. Anni molto difficili per le persone che rappresentiamo, il nostro obiettivo è sempre stato di produrre acciaio di qualità, sennò il nostro paese fatica a dirsi industriale. Senza che muoia nessuno né dentro né fuori, visto che tutti i nostri iscritti hanno un parente malato», ricorda.
Lo scudo penale rimane sullo sfondo. Anche se i sindacati chiedono di rimetterlo tanto che nella nota per lo sciopero Fim, Fiom e Uilm chiedono al governo «non concedere nessun alibi alla stessa per disimpegnarsi».
ALLO STESSO MODO NESSUNO è disposto a sedersi al tavolo con Mittal con «la pistola alla tempia» di «il ridimensionamento produttivo a quattro milioni di tonnellate e la richiesta di licenziamento di 5 mila lavoratori, oltre alla messa in discussione del ritorno al lavoro dei 2 mila in amministrazione straordinaria».
LANDINI SPINGE PER L’INGRESSO di una «presenza pubblica per avere la certezza che gli investimenti come la copertura dei parchi per affrontare il problemi delle polveri: perché dovrei regalarlo a qualcuno visto che adesso sotto non c’è niente?». «L’idea che decide il tribunale e poi vediamo se troviamo qualcun altro è sbagliata. Lo sciopero è per fare questa battaglia per imporre a Mittal di rispettare gli accordi. Non solo far scioperare i lavoratori Ilva ma essere aperti a qualsiasi decisione», chiude Landini.
Per Annamaria Furlan della Cisl «è condivisibile l’appello del governo a rimanere uniti, ma è importante che tutti remiamo dalla stessa parte perché la via legale sarebbe troppo lunga ed alla fine ci ritroveremmo la fabbrica chiusa».
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Sistema appalti Fincantieri, 12 manager indagati
Cantieri Selvaggi. Indagine della Procura di Venezia: tangenti mentre i bengalesi sono sfruttati a 5 euro l’ora. La Fiom: nostre denunce da tempo, se esternalizzi tutto, favorisci l’illegalità diffusa
Ora che c’è anche la magistratura a scoperchiare il sistema di appalti e subappalti Fincantieri che sfrutta il lavoro degli immigranti del Bangladesh e ingrassa le tasche di dirigenti, forse qualcosa cambierà. Ma la prima reazione del gigante della cantieristica – pubblico al 70 per cento – non lascia ben sperare.
La procura di Venezia – su più denunce – ha messo sotto indagine ben 12 importanti dirigenti della società guidata da quasi 20 anni dall’inossidabile Giuseppe Bono, ultimo boiardo di stato amico di tutti i governi, indipendentemente dal colore. Una inchiesta che ha portato a 80 perquisizioni in mezza Italia, partita dal cantiere di Marghera per allargarsi a Monfalcone coinvolgendo anche Liguria, Sicilia, Campania e Marche. Un sistema di tangenti a tre livelli con cui le imprese in appalto pagavano i manager per poter lavorare in Fincantieri come fornitori, nelle commesse e – la più grave – per appalti sotto costo a cui i dirigenti, attraverso i Documenti di coordinamento delle modifiche (Dcm), concedevano più ore di lavoro alle imprese che li «remuneravano» con soldi o regali. Tra i dirigenti indagati ci sono pezzi da novanta di Fincantieri come Carlo De Marco, al tempo direttore generale di Marghera e ora responsabile della divisione mercantile (cruise), Paolo Reatti ora coordinatore degli acquisti, e Vito Cardella, ora in Fincantieri Infrastructure, l’azienda che sta costruendo il nuovo ponte di Genova. Assieme ai responsabili delle aziende in appalto – alcuni bengalesi – i reati contestati sono corruzione, fatture false e sfruttamento del lavoro. Arresti domiciliari per il bengalese Mohammad Shafique, a capo di due ditte di Mestre, la Gazi e la Cnb Srl, e un sequestro di 200mila euro, soldi che secondo l’accusa sarebbero stati sottratti ai lavoratori.
Ci guadagnavano tutti, infatti. Tutti tranne gli operai del Bangladesh, pagati a 5 euro l’ora con buste false che spesso dovevano anche ridare soldi in contanti in cambio di un salario da fame. La miriade di aziende in appalto e subappalto sono il vero modello Fincantieri se è vero che l’azienda ha 7.800 dipendenti diretti mentre nei suoi cantieri entrano circa 26mila lavoratori di ditte esterne per un rapporto di 1 a 3 se non 1 a 4: in pratica il 70% di chi entra non è un dipendente Fincantieri.
Ed è proprio il sistema Fincantieri ad essere ora sotto accusa. «Denunciavamo queste pratiche da tempo, soprattutto a Monfalcone dove alcuni lavoratori del Bangladesh hanno avuto il coraggio di rivolgersi alla magistratura. Se tu basi il tuo successo sull’esternalizzazione iper spinta è chiaro che generi questo tipo di problemi. Se dai in appalto anche attività di core business di cantieristica e attività di scafo come la verniciatura e impianti è normale che ci siano aziende che facciano di tutto pur di poter entrare nel sistema», denuncia Roberto D’Andrea, coordinatore nazionale Fincantieri per la Fiom.
Tutto parte dal mancato rispetto del contratto nazionale. «Noi più volte abbiamo ci siamo appellati alla responsabilità sociale dell’impresa Fincantieri ma i vertici si sono rifiutati perfino di farci conoscere le “timbrature” delle ditte d’appalto che ci permetterebbero di sapere quanti sono e quanto lavorano i loro dipendenti», denuncia D’Andrea.
La risposta di Fincantieri all’inchiesta difende il sistema attuale. «La società rivendica la propria estraneità – si legge in una nota – è impegnata in attività di verifica che accompagnano tutto il ciclo della commessa nel sistema degli appalti e vigila sul puntuale adempimento di quanto spetta al personale dipendente». Cinque euro all’ora. Ma va bene così.
* Fonte: Massimo Franchi, il manifesto
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