Ilva è una macchina assassina, nazionalizzare per fermarla e cambiarla

by Marco Revelli * | 17 Novembre 2019 10:14

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L’Ilva di Taranto è una gigantesca macchina assassina. La cifra di tutta la sua storia è la Morte (la «morte industriale» canterebbe Guccini). Da questo dato durissimo, e inconfutabile, non può prescindere ogni discussione sul suo destino (sul suo passato, sul suo presente, e soprattutto sul suo futuro): dal fatto che quello stabilimento uccide.

Uccide chi ci lavora dentro: i «suoi» operai (farebbero bene a rifletterci i sindacati che non dovrebbero difendere solo i posti di lavoro ma anche i lavoratori e le loro vite). Ne sono morti 208, per «incidenti» sul lavoro, dal primo, Giovanni Gentile, il 1° agosto del ’61 quando la fabbrica era ancora in costruzione all’ultimo, Cosimo Massaro, il 10 agosto del 2019; altre centinaia e centinaia sono morti più lentamente, divorati dal cancro, dai linfomi, dalla leucemia (tra i dipendenti Ilva di Taranto, certifica l’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro, si registra il 500% in più di malati di cancro rispetto al resto della popolazione).

E uccide chi ci abita intorno: gli sfortunati bambini dei quartieri Tamburi e Paolo VI, minati nella salute fin dal ventre materno, e i 200.000 cittadini di una città presa in ostaggio da una fabbrica feroce. «Qui – scrivono le madri e i padri organizzati nell’Associazione genitori tarantini -, le malattie iniziate in gravidanza raggiungono il 45% in più della media regionale; qui, l’eccesso di mortalità entro il primo anno di vita è superiore del 20% rispetto alla media regionale; qui, l’incidenza tumorale nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni è del 54% in più, mentre la mortalità infantile raggiunge un +21%, sempre rispetto alla media». Sono dati, agghiaccianti, confermati e certificati dal Ministero della salute col «Rapporto Sentieri» giunto nel 2019 alla sua V^ edizione, il quale per l’area di Taranto, trabocca di «eccessi», cioè di percentuali di ammalati superiori alla media per una lunga lista di patologie mortali.

Il resto, certo, è importante: i posti di lavoro a rischio, il contributo di quello stabilimento al Prodotto interno nazionale, il ruolo dell’Italia di grande produttore… Ma viene dopo, quei numeri che sono vite. E che se letti con l’attenzione che meritano, come la descrizione di una vera e propria strage di innocenti, dovrebbero bastare per mettere a tacere ogni fautore dello scellerato «scudo penale» – un’aberrazione giuridica oltre che morale – e della assoluta priorità della produzione d’acciaio, costi quel che costi. Eppure li abbiamo visti in questi giorni, politici degli opposti schieramenti, opinion leader delle molteplici testate, raffinati uomini di legge dai clienti facoltosi, discettare di priorità assoluta da dare alla produzione, di eccellenza italiana nell’acciaio in Europa, di necessari «bilanciamenti tra salute e lavoro», di Mittal da trattenere magari concedendole quel che vuole, come se un punto di Pil valesse centinaia di vite. E come se la Costituzione, all’art. 32, non qualificasse quello alla salute come un «fondamentale diritto», mentre il «lavoro» che pure essa tutela non può essere il lavoro che uccide, pena il suo degrado a «lavoro schiavo».

E allora è il caso di dire alcune cose chiare sulla questione. In primo luogo che i sette anni trascorsi dal primo sequestro dell’area a caldo dell’Ilva da parte di una giudice coraggiosa, Patrizia Todisco, e segnati da ben 13 decreti «salva Ilva», compreso quello sciagurato del primo governo Renzi che istituiva l’«immunità penale» per Commissari e successivi acquirenti, sono trascorsi stiracchiando la produzione e trascurando in modo indecente gli interventi a tutela di salute e ambiente. Tant’è vero che, all’ombra di quello «scudo», l’Ilva ha continuato a inquinare, che i bambini di Tamburi continuano a non poter giocare all’aperto e quando tira vento nemmeno andare a scuola, che la diossina continua a uscire dalle ciminiere dell’area a caldo, e che tumori e linfomi continuano a mietere vittime.

In secondo luogo diciamolo che Arcelor Mittal è un padrone che è meglio perdere che trovare. Un gruppo dalla vocazione predatoria che con molta probabilità fin dall’inizio della trattativa non aveva nessuna intenzione di gestire l’Ilva ma al contrario di fingere di acquistarla per suicidarla, e così eliminare un concorrente fastidioso (l’inchiesta aperta dalla magistratura milanese ci dice che più di un indizio porta in questa direzione). Sarebbe masochismo mettere nelle mani di gente simile la salute dei cittadini, il lavoro dei dipendenti e la produzione dell’area.

In terzo luogo: quello stabilimento, nato male, nel posto sbagliato, nel modo sbagliato, sessant’anni fa, oggi è un malato pressoché incurabile. Certo non curabile con i criteri «di mercato» che qualunque privato applicherebbe. Per renderlo compatibile con vita e ambiente dovrebbe essere ristrutturato da capo a piedi: riconvertito a nuove produzioni. O modificato radicalmente con tecnologie «pulite» (supposto che esistano). Per questo la caccia al prossimo acquirente sa di chiacchiera. Nessun privato si assumerebbe un tale onere, se non con intenzioni «sporche». Ricondurlo pienamente sotto proprietà pubblica – «nazionalizzarlo» se si vuole usare la parola proibita -, magari coinvolgendo, almeno una volta per Dio!, l’Europa in un grande piano di bonifica e recupero, per poi, solo a quel punto, ridotto nella condizione di non nuocere, «restituirlo al mercato» a un giusto prezzo, mi sembra l’unica opzione seria sul tavolo.

Infine, vorrei che non si dimenticassero mai – mai! – le parole con cui i Genitori tarantini hanno presentato il loro flash mob «Albe e tramonti», realizzato a luglio per ribadire che «Tutto l’acciaio del mondo non vale la vita di un bambino» e per ricordare «qualcuno che l’alba non potrà più rivederla»: «Ci sono albe e ci sono tramonti incredibilmente affascinanti. E ci sono, poi, tramonti che lasciano nel cuore una notte senza fine. Tramonti che non avremmo mai voluto vivere, ma che si ripresenteranno grazie alla spietata crudeltà propria degli infami».

* Fonte: Marco Revelli, il manifesto[1]

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