Dopo Berlino. Un mondo di muri e di frontiere
Il Muro per antonomasia, quello di Berlino, era lungo 165 chilometri, di cui 106 in forma di muro vero e proprio. Quello che separa gli Stati Uniti dal Messico, che Trump vorrebbe estendere ulteriormente per la modica cifra di 25 miliardi di dollari, è di oltre mille chilometri.
La fine della Guerra fredda ha, dunque, incentivato divisioni e chiusure verso i nuovi nemici dell’Occidente: profughi e migranti. E ha lasciato il posto al proliferare di guerre calde e sanguinose, delimitate territorialmente ma infinite temporalmente, con sommo gaudio delle industrie e degli apparati bellici.
Nel mondo globalizzato della libertà delle merci sono cresciuti da tempo muri e barriere per motivi di guerra o di ripulsa, come una sottile ma immonda ragnatela. In Europa, nelle Americhe, in Medio Oriente, in Asia. Ovunque.
La muraglia che vorrebbe proteggere gli opulenti Stati Uniti dal Messico è lunga ben 1200 chilometri. Quella di Ceuta e Melilla 8-12 chilometri. Sempre contro l’immigrazione, vi sono poi le barriere tra Botswana e Zimbabwe, 500 chilometri; tra Arabia Saudita e Yemen, 75 chilometri; tra Emirati Arabi Uniti e Oman, 410 chilometri; tra Turkmenistan e Uzbekistan, 1700 chilometri; tra India e Bangladesh, 4000 chilometri. E poi quelle erette per ragioni belliche o geopolitiche: 180 chilometri a Cipro, per separare la parte greca da quella turca; 2000 chilometri tra Marocco e Sahara occidentale, contro il Fronte Polisario; 15 chilometri tra Egitto e Gaza; 790 chilometri tra Israele e Cisgiordania; 870 chilometri tra Uzbekistan e Kirghizistan; 550 chilometri, e altri 2900 a sud, tra India e Pakistan, per il conflitto di frontiere; 1400 chilometri tra Cina e Corea del Nord, 241 tra Corea del Sud e Corea del Nord, eredità della guerra fredda novecentesca; 193 chilometri tra Kuwait e Iraq; 950 chilometri tra Arabia Saudita e Iraq. Poi vi sono quelli progettati (come quello tra Tunisia e Libia) e, infine, quelli crescenti nelle grandi città occidentali a proteggere i quartieri benestanti, le fortezze urbane già documentate da studiosi come Mike Davis, David Lyon o David Harvey, le gated community che anche in Italia cominciano a sorgere, assieme al diffondersi di processi di gentrificazione, da Borgo Vione, nell’hinterland milanese a Borgo San Martino a Treviso o all’Olgiata a Roma.
La nuova guerra fredda
Una nuova guerra fredda è in atto. Il crollo epocale del Muro di Berlino, con grande rilievo simbolico, ha dunque lasciato il posto a infinite nuove recinzioni. Non più a garanzia della spartizione di Yalta e dell’equilibrio del terrore, ma a dividere il mondo dei ricchi da quello dei poveri e diseredati, visti e voluti come nemici da parte di quella “lotta di classe dall’alto” da tempo trionfante.
Chi ha sognato la costruzione di ponti per unire popoli e scambiare culture ha da tempo dovuto arrendersi allo sgomento. Come quel grande costruttore che ha provato a essere Alexander Langer, che non a caso si è ucciso quando questo processo è cominciato, con la guerra nei Balcani.
Ora, scoperchiato il Vaso di Pandora, al centro dell’Europa volano i droni a sigillare confini, si manganellano uomini e si rinchiudono bambini, si usano gas lacrimogeni contro donne e anziani.
L’Altro dietro il muro
Il confine indica una demarcazione, la separazione tra Stati. Fissa e divide “noi” dagli “altri”. Diversamente, la frontiera suggerisce la contaminazione possibile, il mettere di fronte, il con-fronto. I muri, fisici e normativi, trasformano le frontiere in confini. Ed è quanto sta avvenendo in questi anni.
Oggi nel mondo esistono 323 frontiere terrestri su circa 250.000 chilometri; l’Europa ne conta circa cento, per una lunghezza attorno ai 37.000 chilometri. Oltre il 10%, circa 28.000 chilometri, sono comparse dopo il 1990, ossia dopo la fine della Guerra fredda. Aggiungendo quelle marittime il numero a livello mondiale è più che doppio: 750 frontiere per 197 Stati.
Solo una parte di quelle terrestri è delimitata da muri fisici: dal 3% al 18% (7.500-41.000 chilometri), a seconda delle definizioni e dei metodi di calcolo. Oltre a quelli fisici vanno però considerati quelli immateriali, vigilati fisicamente o tecnologicamente con droni, sensori e satelliti, come ad esempio nel Brasile.
Le amministrazioni di sinistra e l’apartheid urbano
In quelle statistiche non risultano però quei muri, di lunghezza scarsa ma di altezza – anche simbolica – invece significativa, introdotti all’interno stesso delle città, a separarne e isolarne zone, considerate di degrado. Una misura di apartheid sociale che in Italia è stata inaugurata a Padova nel 2006, per volontà e opera di un sindaco di centrosinistra, Flavio Zanonato, alimentatore instancabile di campagne securitarie, in seguito promosso con un posto da ministro nel governo Letta e uno al Parlamento Europeo. Bisogna riconoscere che la sua attenzione emulativa all’approccio della Lega risale a tempi non sospetti, poiché già allora dichiarava, infastidito dai suoi stessi compagni di partito: «Non sopporto chi, del PD, va in TV da Bruno Vespa a dire che sull’immigrazione la Lega è razzista. È “anche razzista”, ma lo si vuol capire che il problema c’è?» (Giorgio Dell’Arti, Biografia di Flavio Zanonato, in http://www.cinquantamila.it/storyTellerThread.php?threadId=ZANONATO%20Flavio, 27 ottobre 2014).
Lui il “problema” ha provato a risolverlo in quel modo, si immagina costoso per le casse pubbliche e avvilente per l’estetica cittadina, isolando un intero quartiere con un muro, manco il capoluogo patavino fosse la Cisgiordania. Naturalmente, senza alcun risultato, giacché era ed è prevedibile e inevitabile che spaccio e prostituzione, nell’eventualità, si limitano a spostarsi in zone limitrofe. Nonostante ciò, il suo esempio continua a fare scuola, tanto che, nell’ottobre 2018, è stato imitato anche da Milano, retta da un’amministrazione di centrosinistra. Anzi è stato superato, perché se quello padovano era alto tre metri, quello di Rogoredo, pensato per isolare il “boschetto della droga” dalla stazione dei treni, utilizza lastre di ben quattro metri, per centinaia di metri di lunghezza, con un costo di circa 700 mila euro. Il muro per «bonificare Rogoredo», eretto dalle Ferrovie dello Stato in concerto con le autorità cittadine, prevede anche il disboscamento, per facilitare il pattugliamento da parte delle forze dell’ordine. A Roma, invece, la Giunta 5 Stelle e le Ferrovie, proprietarie dello spazio, hanno pensato bene di isolare il centro di accoglienza autogestito di Baobab Experience circondandolo con un muro di ferro e cemento. A ribadire la logica di apartheid: i migranti debbono stare in gabbie, separati dal contesto urbano. La chiamano riqualificazione delle periferie. Assieme alle architetture ostili e disciplinari, alla più generale società della sorveglianza e del controllo securitario sono invece strumenti di controllo dei poveri e del disagio. Costano assai più del welfare ma consentono ben maggiori business e speculazioni, economiche e politiche.
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Image by Almonroth [CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)]
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