Bolivia. Destra ed esercito costringono al ritiro Evo Morales, «presidente indio»

by Claudia Fanti * | 12 Novembre 2019 9:11

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È un golpe. Difficilmente si potrebbe descrivere in maniera diversa quanto si è consumato negli ultimi giorni in Bolivia. Perché, al di là della controversa candidatura di Morales e persino dei dubbi sulla trasparenza delle elezioni del 20 ottobre, è ormai chiaro che l’opposizione non avrebbe accettato altro risultato che la sconfitta dell’odiato «presidente indio».

È PER QUESTO che, a ogni tentativo di Morales di «pacificare» il paese, la destra ha risposto alzando l’asticella delle rivendicazioni e intensificando la violenza per le strade. Così, nel momento in cui il presidente affidava a un’istanza come l’Osa – l’Organizzazione degli Stati americani, non certo nota per le sue simpatie di sinistra – il compito di verificare, di fronte alle accuse di brogli, la correttezza o meno del processo elettorale, il suo avversario Carlos Mesa, dopo aver dichiarato che avrebbe partecipato all’audit solo se i risultati fossero stati vincolanti, ha repentinamente cambiato idea.

E quando, dopo il rapporto preliminare dell’Osa sulle «irregolarità molto gravi» riscontrate nel processo, Morales ha annunciato nuove elezioni insieme al completo rinnovo del Tribunale supremo elettorale, l’opposizione è passata a pretendere la sua rinuncia.

A COMPIERE L’ULTIMO ATTO del golpe, quello decisivo, è stato il comandante generale delle forze armate Willimas Kaliman, che ha “suggerito” a Morales di dimettersi, «consentendo la pacificazione e il mantenimento della stabilità». Ma, prima di allora, si erano già registrati vari ammutinamenti della polizia, nel momento in cui la violenza golpista, a cui era stato lasciato campo libero, dilagava nel paese in mezzo a incendi appiccati alle case dei dirigenti del Mas (Movimiento al socialismo), ad attacchi ai mezzi di comunicazione e ad atti di violenza squadrista, come quello contro la sindaca di Vinto, Patricia Arce, a cui i manifestanti hanno tagliato a forza i capelli e versato addosso della vernice rossa.

E mentre si succedevano le dimissioni di funzionari governativi, in alcuni casi in seguito a minacce ai loro familiari e in altri per contribuire alla «pacificazione» del paese – come se fosse possibile una convivenza pacifica con un’oligarchia razzista e golpista – il leader dei comitati civici di Santa Cruz Luis Fernando Camacho entrava nel Palazzo Quemado, l’antica sede del governo, con la sua lettera di richiesta di dimissioni per Morales, inginocchiandosi davanti a una bandiera della Bolivia e a una Bibbia.

La rinuncia era ormai inevitabile. E così Morales, in un discorso alla nazione pronunciato insieme al vice-presidente Álvaro García Linera, anche lui dimessosi, ha annunciato di lasciare l’incarico «affinché Mesa e Camacho non continuino a incendiare case e a intimidire e minacciare le nostre famiglie».

«HO L’OBBLIGO di operare per la pace» e di impedire «che ci si scontri tra boliviani», ha aggiunto, promettendo che «la lotta continuerà». Parole a cui l’opposizione golpista ha reagito riversandosi per le strade a festeggiare la vittoria della “democrazia”, nel momento in cui i gruppi di oppositori provvedevano a saccheggiare la casa di Morales a Cochabamba e la polizia procedeva ad arrestare le autorità del Tribunale supremo elettorale, María Eugenia Choque e Antonio Costas.

Ma la persecuzione – denunciano fonti locali – rischia ora di scatenarsi contro numerosi dirigenti e militanti del Mas, compresi quegli «indios de mierda» invitati ripetutamente a lavarsi dai gruppi oppositori.

Giungono intanto da ogni parte le condanne del golpe – da Cuba al Venezuela, dal Messico alla Russia, da Lula ad Alberto Fernández, da Pablo Iglesias a Jeremy Corbyn -, accanto a inviti alla «moderazione» come quelli dell’Alta rappresentante della Ue per gli affari esteri Federica Mogherini o del segretario generale dell’Onu António Guterres.

UN INVITO che i vertici militari, ormai pienamente soddisfatti per essere riusciti a cacciare via Morales, si dispongono ad accogliere annunciando di aver autorizzato le forze armate a realizzare «operazioni militari aeree e terrestri» contro i gruppi armati che stiano «operando al di fuori della legge», quelli, naturalmente, che, come nella città di El Alto, hanno cominciato a protestare contro il colpo di stato.

Cosa succederà ora è difficile dirlo. Perché, dopo la rinuncia di Morales e di Linera, anche i successivi anelli della catena di successione – la presidente del Senato Adriana Salvatierra e quello della Camera Víctor Borda – si sono dimessi. E quindi non è affatto chiaro chi assumerà la presidenza e convocherà le prossime elezioni. A rivendicare l’incarico è la seconda vicepresidente del Senato, l’esponente dell’opposizione Jeanine Añez, ma, se la Costituzione non è chiara al riguardo, di sicuro il passaggio dei poteri dovrà essere approvato dal parlamento, che però è controllato dal Mas.

INTANTO, mentre si è consumato in America Latina il quarto golpe in dieci anni, dopo quelli in Honduras (2009), Paraguay (2012) e Brasile (2016), il Comitato politico del Mas ha annunciato l’avvio di «un lungo cammino di resistenza, per difendere i successi storici del primo governo indigeno» della storia del paese: «Resistere, per tornare domani a combattere». Ma il fatto che persino alcuni movimenti popolari vicini al governo, come la Federación Sindical de Trabajadores Mineros e persino la Central Obrera Boliviana, abbiano sollecitato Morales alle dimissioni dovrebbe indurre la sinistra anche a una profonda autocritica.

* Fonte: Claudia Fanti, il manifesto[1]

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