Bolivia. Destra ed esercito costringono al ritiro Evo Morales, «presidente indio»
È un golpe. Difficilmente si potrebbe descrivere in maniera diversa quanto si è consumato negli ultimi giorni in Bolivia. Perché, al di là della controversa candidatura di Morales e persino dei dubbi sulla trasparenza delle elezioni del 20 ottobre, è ormai chiaro che l’opposizione non avrebbe accettato altro risultato che la sconfitta dell’odiato «presidente indio».
È PER QUESTO che, a ogni tentativo di Morales di «pacificare» il paese, la destra ha risposto alzando l’asticella delle rivendicazioni e intensificando la violenza per le strade. Così, nel momento in cui il presidente affidava a un’istanza come l’Osa – l’Organizzazione degli Stati americani, non certo nota per le sue simpatie di sinistra – il compito di verificare, di fronte alle accuse di brogli, la correttezza o meno del processo elettorale, il suo avversario Carlos Mesa, dopo aver dichiarato che avrebbe partecipato all’audit solo se i risultati fossero stati vincolanti, ha repentinamente cambiato idea.
E quando, dopo il rapporto preliminare dell’Osa sulle «irregolarità molto gravi» riscontrate nel processo, Morales ha annunciato nuove elezioni insieme al completo rinnovo del Tribunale supremo elettorale, l’opposizione è passata a pretendere la sua rinuncia.
A COMPIERE L’ULTIMO ATTO del golpe, quello decisivo, è stato il comandante generale delle forze armate Willimas Kaliman, che ha “suggerito” a Morales di dimettersi, «consentendo la pacificazione e il mantenimento della stabilità». Ma, prima di allora, si erano già registrati vari ammutinamenti della polizia, nel momento in cui la violenza golpista, a cui era stato lasciato campo libero, dilagava nel paese in mezzo a incendi appiccati alle case dei dirigenti del Mas (Movimiento al socialismo), ad attacchi ai mezzi di comunicazione e ad atti di violenza squadrista, come quello contro la sindaca di Vinto, Patricia Arce, a cui i manifestanti hanno tagliato a forza i capelli e versato addosso della vernice rossa.
E mentre si succedevano le dimissioni di funzionari governativi, in alcuni casi in seguito a minacce ai loro familiari e in altri per contribuire alla «pacificazione» del paese – come se fosse possibile una convivenza pacifica con un’oligarchia razzista e golpista – il leader dei comitati civici di Santa Cruz Luis Fernando Camacho entrava nel Palazzo Quemado, l’antica sede del governo, con la sua lettera di richiesta di dimissioni per Morales, inginocchiandosi davanti a una bandiera della Bolivia e a una Bibbia.
La rinuncia era ormai inevitabile. E così Morales, in un discorso alla nazione pronunciato insieme al vice-presidente Álvaro García Linera, anche lui dimessosi, ha annunciato di lasciare l’incarico «affinché Mesa e Camacho non continuino a incendiare case e a intimidire e minacciare le nostre famiglie».
«HO L’OBBLIGO di operare per la pace» e di impedire «che ci si scontri tra boliviani», ha aggiunto, promettendo che «la lotta continuerà». Parole a cui l’opposizione golpista ha reagito riversandosi per le strade a festeggiare la vittoria della “democrazia”, nel momento in cui i gruppi di oppositori provvedevano a saccheggiare la casa di Morales a Cochabamba e la polizia procedeva ad arrestare le autorità del Tribunale supremo elettorale, María Eugenia Choque e Antonio Costas.
Ma la persecuzione – denunciano fonti locali – rischia ora di scatenarsi contro numerosi dirigenti e militanti del Mas, compresi quegli «indios de mierda» invitati ripetutamente a lavarsi dai gruppi oppositori.
Giungono intanto da ogni parte le condanne del golpe – da Cuba al Venezuela, dal Messico alla Russia, da Lula ad Alberto Fernández, da Pablo Iglesias a Jeremy Corbyn -, accanto a inviti alla «moderazione» come quelli dell’Alta rappresentante della Ue per gli affari esteri Federica Mogherini o del segretario generale dell’Onu António Guterres.
UN INVITO che i vertici militari, ormai pienamente soddisfatti per essere riusciti a cacciare via Morales, si dispongono ad accogliere annunciando di aver autorizzato le forze armate a realizzare «operazioni militari aeree e terrestri» contro i gruppi armati che stiano «operando al di fuori della legge», quelli, naturalmente, che, come nella città di El Alto, hanno cominciato a protestare contro il colpo di stato.
Cosa succederà ora è difficile dirlo. Perché, dopo la rinuncia di Morales e di Linera, anche i successivi anelli della catena di successione – la presidente del Senato Adriana Salvatierra e quello della Camera Víctor Borda – si sono dimessi. E quindi non è affatto chiaro chi assumerà la presidenza e convocherà le prossime elezioni. A rivendicare l’incarico è la seconda vicepresidente del Senato, l’esponente dell’opposizione Jeanine Añez, ma, se la Costituzione non è chiara al riguardo, di sicuro il passaggio dei poteri dovrà essere approvato dal parlamento, che però è controllato dal Mas.
INTANTO, mentre si è consumato in America Latina il quarto golpe in dieci anni, dopo quelli in Honduras (2009), Paraguay (2012) e Brasile (2016), il Comitato politico del Mas ha annunciato l’avvio di «un lungo cammino di resistenza, per difendere i successi storici del primo governo indigeno» della storia del paese: «Resistere, per tornare domani a combattere». Ma il fatto che persino alcuni movimenti popolari vicini al governo, come la Federación Sindical de Trabajadores Mineros e persino la Central Obrera Boliviana, abbiano sollecitato Morales alle dimissioni dovrebbe indurre la sinistra anche a una profonda autocritica.
* Fonte: Claudia Fanti, il manifesto
Related Articles
Dopo il midterm Trump caccia subito il procuratore Jeff Sessions
In conferenza stampa parole di elogio per Nancy Pelosi, futura speaker democratica della Camera
La Turchia smentisce gli Usa: «Non abbiamo dato le basi »
Iraq/Siria. Washington annuncia l’accordo con Ankara per l’utilizzo della base di Incirlik, ma i turchi smentiscono. L’esercito iracheno abbandona la base di Heet, fuori Baghdad: ora è in mano all’Isis
Si apre la Conferenza di Parigi su Israele e Palestina, Netanyahu è contro
Medio Oriente. I rappresentanti di una trentina di Paesi occidentali e arabi si riuniscono oggi nella capitale francese per fissare i parametri di futuri negoziati tra israeliani e palestinesi