Ue-Turchia. Erdogan minaccia l’invasione dei migranti e spaventa l’Europa
I carri armati contro i curdi e le minacce contro l’Unione europea. Guai a definire «un’invasione» quello che la Turchia sta facendo nel nord della Siria, perché Recep Tayyip Erdogan è pronto ad aprire il rubinetto dei migranti e a invadere, lui sì, l’Europa con centinaia di migliaia di profughi siriani. «Ve lo ridico: se tentate di presentare la nostra operazione lì come un’invasione, apriremo le porte e vi invieremo 3,6 milioni di migranti», ha avvertito il presidente turco parlando al parlamento di Ankara.
Al Consiglio europeo del prossimo 17 e 18 ottobre i capi di Stato e di governo dei 28 decideranno quali azioni intraprendere nei confronti di Ankara, ma per adesso Bruxelles è stata capace solo di produrre un assai timido comunicato nel quale si chiede alla Turchia di fermare le operazioni militari. Operazioni che – bene ricordarlo – in poche ore hanno già provocato la fuga di almeno 60 mila persone dalle loro case.
Va detto che non è la prima volta che Erdogan usa i migranti come strumento di pressione, anche se finora non ha ottenuto nulla. L’ultima volta è stata lo scorso primo ottobre, vigilia dell’operazione «Fonte di pace», quando mise in guardia l’Ue dall’interferire nel suo piano di deportare due milioni di siriani in una «safe zone» nel nord della Siria se non voleva vedere la fine del patto siglato a marzo del 2016 con cui Ankara si impegnò a fermare le partenze dei migranti verso al Grecia. Minaccia ripetuta anche a luglio (in quell’occasione si chiedeva a Bruxelles di mantenere la promessa di liberalizzare i visti per i cittadini turchi) e almeno altre due o tre occasioni nel corso degli ultimi tre anni. E ogni volta Erdogan ha agitato sotto gli occhi degli spaventati Stati europei lo spauracchio di una nuova ondata migratoria simile, se non più grande, a quella del 2015.
Alla Turchia va comunque riconosciuto il merito di essere, con 3,6 milioni di profughi, il Paese al mondo che accoglie il maggior numero di rifugiati, circa un decimo dei quali vive in condizioni di difficoltà in campi spesso sovraffollati. Secondo i dati diffusi a marzo scorso dall’Unicef, sono 645 mila i piccoli rifugiati che riescono ad andare a scuola, ma l’organizzazione ha denunciato anche una dispersione scolastica pari al 40%, con circa 400 mila bambini e adolescenti che non possono avere un’istruzione perché costretti a lavorare, ma anche perché non possono comprare i libri oppure perché obbligati a sposarsi precocemente.
Ovviamente tutto ha un prezzo e l’Europa il suo l’ha pagato volentieri pur di fermare i barconi: 6 miliardi di euro, tanti ne prevedeva l’accordo del 2016, 5,6 dei quali saldati (l’ultima tranche, di 1,41 miliardi, ha avuto il via libera dalla Commissione europea il 19 luglio). E crisi diplomatica permettendo Ankara vorrebbe un altro miliardo di euro per continuare a fermarli anche nel 2020.
Bisogna considerare che a otto anni di distanza dall’inizio della guerra molti siriani non sperano né intendono più tornare nel loro Paese. E senza aspettare Erdogan tentano da soli e in tutti i modi di raggiungere l’Europa nella speranza di riuscire a costruirsi un futuro. 315 mila sono quelli fermati in Turchia da gennaio al 30 settembre mentre tentavano di attraversare la frontiera con l’Ue, 47 mila in più rispetto al 2018. 27 mila quelli fermati solo nel mese di maggio. Numeri che spaventano la Grecia, primo Paese che si troverebbe ad accoglierli e già in crisi per il sovraffollamento presente sulle isole dell’Egeo, e poi a salire tutta l’Europa. Ma che dimostrano anche come quelle che per alcuni sono minacce, per altri possono rappresentare una speranza.
* Fonte: Carlo Lania, il manifesto
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