Siria. La Russia minaccia i curdi, mentre Nato e Usa festeggiano

by Chiara Cruciati * | 24 Ottobre 2019 9:33

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Le prime ore dal patto russo-turco sono segnate dall’ingresso nelle città curdo-siriane di veicoli di ogni tipo: quelli della polizia di Mosca, entrati a Manbij e Kobane – il simbolo della lotta all’Isis e del confederalismo democratico – e quelli dei kamikaze islamisti che hanno violato la capitale del Rojava, Qamishlo, poi Suluk, cittadina a maggioranza araba a Tal Abyad (lì dove comincia l’occupazione turca), e infine al-Shadadi, a sud di Hasakeh.

Una serie di esplosioni che hanno provocato morti e feriti e per ora nessuna rivendicazione. Ma la matrice è troppo simile a quella solita, cellule non più nascoste dello Stato islamico che hanno trovato la giusta linfa nell’invasione turca del nord della Siria.

Fonti curde lo dicono (e pubblicano foto e video) da due settimane: alle fila delle milizie islamiste alleate della Turchia si sono uniti molti membri dell’Isis. Tra questi gli evasi dai campi di detenzione gestiti dalle unità di difesa curde, Ypg/Ypj, stimati ieri dal Dipartimento di Stato statunitense in 100 fuggitivi, molto probabilmente un numero al ribasso.

Nelle stesse ore quattro veicoli russi facevano il loro ingresso a Manbij e Kobane, secondo l’accordo di Sochi di martedì che prevede pattugliamenti congiunti turco-russi a est e ovest della zona cuscinetto tra Tal Abyad e Ras al-Ain, consegnata da Mosca al controllo della Turchia.

Quei veicoli sono l’immagine plastica di quella molti osservatori chiamano pax russa: altro non è che una pace fondata sulla violazione della sovranità siriana, su un progetto in fieri di ingegneria sociale di trasferimento forzato della popolazione e sul tentativo di cancellare l’esperienza curda del confederalismo democratico.

Dopo il vertice-fiume di Sochi tra Erdogan e il presidente Putin, ieri la Russia ha fatto la voce grossa con i curdi: si ritirino e si disarmino entro il 29 ottobre, scadenza delle 150 ore di nuovo cessate il fuoco, altrimenti – parola del portavoce del Cremlino – Mosca e Damasco li lasceranno da soli di fronte «al peso dell’esercito turco». «Saranno asfaltati», dice.

La Russia crede di poterselo permettere: in appena 14 giorni (dall’inizio dell’operazione turca «Fonte di Pace», il 9 ottobre) si è guadagnata gli stivali sul terreno – suoi e di Damasco – nel terzo di territorio siriano da cui finora era assente, sostituendo i marines Usa e spostando ancora più alto il grado di fedeltà di Ankara.

Festeggiano tutti: il presidente Usa Trump celebra follemente l’accordo («Un grande successo. Un risultato creato dagli Stati uniti») e annuncia la fine delle sanzioni alla Turchia; l’Iran parla di passo positivo verso la stabilità; il presidente siriano Assad – che martedì dava del ladro a Erdogan – fa buon viso a cattivo gioco e dà «pieno supporto» all’intesa; pure il segretario generale della Nato, Stoltenberg, definisce «incoraggiante quanto visto in questi giorni».

C’è solo una voce fuori dal coro, quella dell’inviato speciale Usa per la Siria, molto diversa dai trionfalismi trumpiani: «Abbiamo visto molti episodi ascrivibili a crimini di guerra», ha detto ieri James Jeffrey alla Camera, chiedendo poi l’apertura di un’inchiesta su Ankara.

Le uniche a non parlare, finora, sono l’amministrazione autonoma del Rojava e le Forze democratiche siriane, sacrificate sull’altare delle ragion di Stato altrui. Saranno costrette al disarmo, la popolazione ad accettare di vivere sotto occupazione turca tra Tal Abyad e Ras al Ain (Sere Kaniye) o ad andarsene.

Probabilmente in molti lo faranno: in rete miliziani islamisti pro-turchi rilanciano video di abusi contro civili e combattenti curdi, contro i vivi e contro i morti, cadaveri vilipesi che ricordano da vicino le violenze tuttora subite (stupri, rapimenti, saccheggi) dal cantone curdo-siriano di Afrin, a ovest, occupato nell’aprile 2018 dalla Turchia e dai suoi pretoriani islamisti.

Se ne andranno per fare spazio ai due milioni di rifugiati siriani che la Turchia intende trasferire in cui 100 km per 32 di territorio che la Russia gli ha unilateralmente riconosciuto. Chi siano, da dove vengano e se vogliano rinunciare alla loro casa per ricollocarsi in un’altra, non è dato sapere. Non sono loro a decidere, al pari del popolo del Rojava.

* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto[1]

photo by ANF News

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