Sciopero dei palestinesi d’Israele contro l’ondata di omicidi

by Michele Giorgio * | 4 Ottobre 2019 10:19

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«Polizia e servizi non intervengono perché ad ammazzarsi tra di loro sono gli arabi», denunciano politici e società civile

GERUSALEMME.«Nel 2017 i morti sono stati 72, nel 2018 75, quest’anno siamo già a 70, di cui 16 tra settembre e i primi tre giorni di ottobre. I morti 1.380 dal 2000». Ha la voce rotta dall’emozione la portavoce di Aman, il centro arabo per la lotta alla violenza, mentre ci riferisce questi numeri drammatici. Non sono le stragi di una guerra. Sono le cifre di un’ondata di violenza che da anni attraversa la minoranza palestinese, un quinto della popolazione di Israele. Le ultime vittime sono i fratelli Ahmad e Khalil Manna, di 30 e 23 anni, uccisi a fucilate a Majd al Krum, in Galilea. Un loro parente, gravemente ferito nella sparatoria, è spirato ieri. Appena qualche giorno fa i palestinesi d’Israele, gli arabo israeliani, avevano commemorato le 13 vittime degli spari della polizia alle manifestazioni in Galilea, ai primi di ottobre del 2000, in sostegno della seconda Intifada nei Territori occupati. Invece mercoledì a migliaia hanno sepolto i fratelli Manna morti nell’ennesima faida tra famiglie. E ieri in massa hanno percorso le strade di Majd al Krum durante lo sciopero generale che ha fermato scuole, uffici pubblici, negozi e quasi ogni attività lavorativa nei centri abitati arabi.

A Majd al Krum c’erano anche i 13 deputati della Lista araba unita. Hanno boicottato l’inaugurazione della nuova Knesset, il parlamento, in segno di protesta per il disinteresse che il governo e le forze di polizia mostrano nei confronti della criminalità, del traffico di armi e droghe pesanti nei centri abitati palestinesi. Il ministro per la sicurezza interna, Gilad Erdan, ha promesso l’adozione di «provvedimenti eccezionali». Ma i palestinesi non credono che il ministro, e stretto collaboratore del premier Netanyahu, punti con serietà a neutralizzare i clan malavitosi e le loro risorse finanziarie, e più di tutto a trovare e confiscare con operazioni di polizia a tappetto le migliaia di armi illegali che abbondano nelle cittadine e nei villaggi arabi. E non si tratta solo di pistole. Sono anche armi automatiche dell’ultima generazione, mitragliatori pesanti, fucili a pompa, M-16, granate. In gran parte provengono da basi delle forze armate. Un video che gira in rete mostra un uomo con il volto coperto che, dal tetto di una casa, nel villaggio beduino di Tuba Zangariya, imbraccia un mitra pesante e spara in aria decine di raffiche.

Come questo arsenale sia potuto finire nelle mani dei trafficanti e poi nei centri abitati arabi è a dir poco incomprensibile in Israele dove i servizi di sicurezza conoscono tutto, oltre a vita, morte e miracoli dei cittadini palestinesi. La spiegazione del giornalista Nasser Atta è cruda, non fa sconti. «Polizia e servizi non intervengono perché ad ammazzarsi tra di loro sono gli arabi e alla maggioranza ebraica, al governo, alle forze di sicurezza non importa mettere fine al bagno di sangue» ci dice, aggiungendo che il suo punto di vita è quello della maggioranza dei palestinesi. «Non sto minimizzando fattori sociali e culturali – aggiunge – ma in Israele i controlli sulle armi sono capillari ed è ben nota la collaborazione dei trafficanti ebrei ed arabi. Più armi ci sono in giro e più le persone si ammazzano tra di loro, lo prova ciò che accade in altri paesi, a cominciare dagli Usa». Atta non crede che il ministro Erdan attuerà i provvedimenti eccezionali di cui ha parlato ieri. «Fino a quando le violenze e il traffico delle armi rimarranno circoscritte ai centri arabi si muoverà ben poco – prevede – Le operazioni di polizia si faranno serie solo se l’ondata di violenza coinvolgerà le città ebraiche».

* Fonte: Michele Giorgio, il manifesto[1]

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