Libano. Nono giorno di piazza, da nord a sud è rivolta popolare

by Sonia Grieco, Pasquale Porciello * | 26 Ottobre 2019 10:14

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BEIRUT. Una delle caratteristiche più salienti dei nove giorni di mobilitazione del Libano, innescata dalla grave crisi economica e dalla corruzione dilagante, è la sua diffusione nazionale. Per la prima volta in anni Beirut non è l’unico e il primo centro del dissenso: Tripoli si gonfia, la Bekaa ribolle, e il sud, inaspettatamente, contesta.

Le immagini in sud in protesta hanno galvanizzato la piazza di Beirut, da dove si sono levati cori di solidarietà sin dal primo giorno. Nel feudo di Hezbollah e Amal, i due partiti sciiti che controllano il meridione sin dalla guerra civile, continua la mobilitazione.

Le proteste si svolgono sotto lo sguardo vigile degli uomini di Hassan Nasrallah (leader di Hezbollah) e di Nabih Berri (capo di Amal), che mercoledì sera a Nabatiye, con la polizia municipale, hanno di nuovo cercato senza successo di disperdere i manifestanti: 15 i feriti.

«Era una cosa organizzata – ci racconta al telefono un dimostrante che vuole restare anonimo – Qui ci conosciamo tutti e sappiamo chi sono queste persone, sappiamo come agiscono. Cercano di intimidirci e a dire il vero non ci aspettavamo che avrebbero usato la forza. Qui non gridiamo nomi, sappiamo che Nasrallah gode del sostegno di gran parte dei manifestanti, ce l’abbiamo con il sistema». Giovedì cinque consiglieri comunali si sono dimessi in polemica con «il trattamento disumano riservato ai manifestanti».

Nel dopoguerra il sud è stato teatro di un significativo sviluppo nell’istruzione, la sanità e il lavoro, patrocinato da Hezbollah che qui è largamente considerato garante della sicurezza e protettore da aggressioni esterne (il Libano è ufficialmente in guerra con Israele). L’adesione al movimento significa accesso agevolato ai servizi, come la sanità che in Libano è privatizzata. Amal, invece, si è assicurato il controllo delle istituzioni locali.

È in fermento anche la Valle della Bakaa. Nel nord, a Baalbek, roccaforte di Hezbollah, si manifesta sin dal primo giorno. Ieri i manifestanti hanno formato una catena umana silenziosa, ognuno con un cartello in mano con le rivendicazioni gridate in questi giorni da tutte le piazze: lavoro, sanità, scuola, sicurezza.

Tentativi di protesta, falliti, c’erano stati anche nelle settimane precedenti al 17 ottobre. «Vogliamo sicurezza. Viviamo nella paura di queste persone che girano armate – ci spiega una ragazza sui trent’anni che vuole restare anonima – Ci sono tantissimi teppisti per le strade. Oggi (25 ottobre) al mercato hanno organizzato una manifestazione contro la rivoluzione».

Le strade per la Valle della Bekaa sono bloccate ed è isolata anche Zahle, città a prevalenza cristiana del sud della Bekaa, dove si continua a scendere in piazza. I manifestanti hanno bloccato anche le strade che portano al nord. La protesta è già una vittoria per Tripoli perché è «una riconciliazione sociale e una riappropriazione dello spazio pubblico da parte della gente comune», dice Nadine Alidib, fondatrice dell’associazione locale Warche 13, knowledge and Art Space.

«La piazza conta sempre più persone – spiega Maher M. Awad, professore e attivista dell’Akkar, che lavora a Tripoli – e al momento rifiuta una politicizzazione della protesta: lo dimostrano l’allontanamento di importanti figure che avevano tentato di cavalcare l’onda della rivolta, come Karami Faisal, capo del Partito Arabo di Liberazione, vicino a Hezbollah, o Misbah Ahbab, esponente del Movimento di Rinnovamento Democratico di Lahoud, e le proteste sotto il palazzo di Najib Miqati, capo del Movimento Azm».

Negli ultimi giorni, però, un elemento di novità emerge a Tripoli come in altre località e riguarda le forze armate. Khaled Merheb, avvocato e attivista locale, fa notare che il supporto all’esercito «comincia a essere più evidente». In alcune piazze, al fianco della bandiera libanese inizia a sventolare anche quella dell’esercito.

In Akkar è accaduto sin dai primi giorni di mobilitazione, racconta Maher M. Awad, aggiungendo che in quell’area «la gente comincia a essere stanca dopo otto giorni di protesta, perché la povertà è forte e la chiusura delle banche di sicuro non aiuta. La gente ha paura, e vede nell’esercito un protettore, una garanzia per l’incolumità delle persone, un cuscinetto tra la gente comune e i partiti».

Alcuni temono che le forze armate vogliano ritagliarsi un ruolo di primo piano nella crisi. I distretti di Tripoli e di Akkar sono i più poveri, quasi la metà della popolazione che vive sotto la soglia di povertà.

Bandiere dell’esercito sventolano anche alla manifestazione di Jaleddib, località cristiana poco a nord di Beirut, nonostante mercoledì ci siano stati tafferugli tra manifestanti e militari che hanno cercato di forzare il blocco sull’autostrada. Jaleddib è uno dei tanti posti in cui la protesta è andata crescendo negli ultimi giorni.

Intanto, ieri a Beirut ci sono stati nuovi scontri tra manifestanti e sostenitori di Hezbollah, poco prima del discorso di Nasrallah. Il leader del Partito di Dio ha escluso le ipotesi di dimissioni del governo e di elezioni anticipate, esortando i suoi a non scontrarsi con i manifestanti e questi ultimi a sbloccare le strade. Ha invocato il rischio di caos, collasso e persino guerra civile. A Baalbek i manifestanti hanno deciso di continuare la protesta e organizzato un raduno per oggi. La città è divisa tra sostenitori di Hezbollah e manifestanti.

* Fonte: Sonia Grieco, Pasquale Porciello, il manifesto[1]

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