by Chiara Cruciati * | 25 Ottobre 2019 10:25
Due giorni dopo il patto stretto sul Mar Nero tra i presidenti di Russia e Turchia, Putin ed Erdogan, ieri le Forze democratiche siriane ne hanno dato la loro lettura. Lo ha fatto il comandante Mazlum Abdi, capo delle Sdf, la federazione multietnica e multiconfessionale nata intorno alle unità di difesa curde Ypg e Ypj.
«Abbiamo dato il nostro consenso al cessate il fuoco, ma quel cessate il fuoco non è stato rispettato dai turchi – ha detto – Gli attuali negoziati riguardano il destino del nostro popolo. Il memorandum d’intesa tra Russia e Turchia non ha il nostro appoggio. Ne discuteremo».
Ne stanno già discutendo: fonti dell’amministrazione autonoma del Rojava riportano di un dialogo fitto con Mosca (sarebbe proseguito ieri sera, in un incontro faccia a faccia) e di pattugliamenti congiunti a Kobane tra Consiglio militare curdo e polizia russa.
Ma durerà poco: secondo il ministero della Difesa russo, sono in arrivo altri 276 soldati nel nord della Siria con il compito, condiviso con l’esercito governativo siriano, di far ritirare i combattenti curdi verso l’interno, a 32 km di distanza dalla frontiera, entro il 29 ottobre.
Alla Turchia va, a tempo indeterminato, il controllo dell’area che corre tra Tal Abyad e Ras al-Ain. In cambio della tregua, che però – denunciano nel Rojava – è ancora una chimera: «Nonostante il nostro ritiro, il governo turco e i suoi alleati terroristi proseguono nella guerra alla nostra gente e alla nostra terra», fa sapere Kino Gabriel, portavoce Sdf.
Risponde a stretto giro Ankara secondo cui i violatori di tregue sarebbero le forze curde: cita cinque soldati feriti da un attacco delle Ypg a Ras al-Ain e l’esplosione di un’autobomba fuori dal quartier generale di una delle milizie islamiste filo-turche a Tal Abyad. Contro le azioni di resistenza, Erdogan ha già evocato in questi giorni un presunto diritto all’autodifesa, seppur sia lui l’invasore.
Tre i villaggi, dicono le Sdf, colpiti ieri dalle forze sotto l’ombrello turco: «Sono stati attaccati i villaggi di Almanajir, Alasadyah e Almusherfah con colpi di artiglieria e incursioni terrestri, che hanno provocato la fuga di migliaia di civili».
Nuovi sfollati che si spingono verso sud e verso est e che si aggiungono ai 300mila scappati nelle ultime due settimane, dall’inizio (il 9 ottobre) dell’operazione militare turca «Fonte di Pace». Cresce il numero dei rifugiati nel Kurdistan iracheno – 10mila secondo i dati forniti dal governo regionale di Erbil – mentre Erdogan continua a utilizzare i rifugiati come minaccia verso un’Europa critica. Lo ha ribadito ieri: «Non state sul piede di guerra, le porte verranno aperte quando sarà il momento. Avete i soldi, siete forti, ma quando 100, 200 persone arrivano in Grecia, correte al telefono».
Il riferimento è al voto di ieri del Parlamento europeo che ha approvato una risoluzione non legislativa di condanna dell’offensiva turca nel nord della Siria: Strasburgo chiede alla Turchia l’immediato ritiro e al Consiglio europeo «di introdurre una serie di sanzioni e divieti di visti di ingresso contro gli ufficiali turchi responsabili di violazioni dei diritti umani e di considerare l’adozione di misure economiche mirate contro la Turchia».
Nelle stesse ore a Montecitorio il sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo (M5S) annunciava alla Commissione difesa il ritiro, il prossimo 31 dicembre, del contingente di 130 soldati italiani e della batteria anti-missile italo-francese Samp-T dalla Turchia.
Parte della missione della Nato «Active Fence», la batteria si trova a Gaziantep e Kahramanmaras, nel sud del paese, dal giugno 2016. Il ritiro non è però un atto politico contro Ankara: il dispiegamento sarebbe comunque scaduto a fine anno, nell’ambito del sistema di rotazione della missione atlantica.
* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto[1]
photo Mazlum Abdi, by ANF News
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