Immigrazione. Il bivio dell’Europa dopo l’inganno di Malta
Dopo la deludente conferenza di Malta sull’emigrazione, soprattutto per le sue stesse motivazioni ed obiettivi, si è consumato l’ennesimo inganno nei confronti dell’opinione pubblica. Inganno che consiste nel dare ad intendere che i flussi migratori verso l’Europa costituiscono un problema per i paesi meta, tanto che occorre convincerli ad una poco desiderabile e difficile accoglienza.
La verità è esattamente opposta: i paesi membri dell’Ue, specie quelli che costituiscono le destinazioni preferite, hanno grande ed urgente bisogno di un numero di immigrati molto maggiore di quanti bussano alle nostre porte. E ciò per vari motivi.
In termini demografici, se consideriamo la popolazione dei 28 paesi dell’Ue, compresa la Gran Bretagna, un cittadino troppo giovane o troppo anziano per lavorare, dipende da meno di 2 persone in età lavorativa (1,8), che si ridurranno a 1,5 entro 10 anni. Il che prospetta una situazione insostenibile a detta della stessa Commissione europea (The 2017 Ageing Report).
La correzione di questo squilibrio è essenziale pure per garantire la tenuta degli attuali livelli di welfare in tutti i paesi dell’Ue.
Infatti il mantenimento dello standard attuale, evitando ulteriori tagli e privatizzazioni, richiederebbe una base contributiva garantita da un aumento della popolazione europea di circa quaranta milioni di persone in 5 anni. Cosa concepibile solo attraverso l’accoglienza e regolarizzazione di un numero di migranti moltiplicativo rispetto a quanti cercano di venire.
Per quanto riguarda il fisco, è dimostrato che tasse e contributi versati dagli immigrati nati all’estero eccedono di oltre il 60% tutte le spese di cui beneficiano, come dimostra il bilancio statale italiano del 2016 (anno di picco) e lo stesso può dirsi per gli altri maggiori paesi europei.
Né si può continuare a far credere che gli immigrati sottrarrebbero lavoro alla popolazione di più antica residenza. Infatti il confronto tra i dati dell’emigrazione e quelli della disoccupazione mostra che dal 2008 la disoccupazione è rimasta alta in Italia e Francia, mentre negli ultimi anni è calata in Gran Bretagna ed è diminuita decisamente in Germania e negli Usa. Invece l’immigrazione è cresciuta in tutti questi paesi e in misure non rapportabili a quelle della disoccupazione.
Viceversa, va sottolineato l’apporto che il lavoro degli immigrati dà alla crescita economica dei paesi ospiti. Prendendo sempre ad esempio l’Italia del 2016, gl’immigrati nati all’estero hanno contribuito ad una crescita del Pil di circa il 9%. Il che vale pure per altri paesi dell’Ue.
Torniamo, allora, alla domanda di fondo: se le cose stanno così, perché ci si ostina a presentare all’opinione pubblica il fenomeno migratorio come ingovernabile e minaccioso? E perché questa rappresentazione falsa e questa chiusura si sono accentuate notevolmente negli ultimi anni?
La risposta non può essere che una: per ragioni politico-elettorali che inseguono e strumentalizzano un malessere sociale diffuso. Malessere le cui cause dipendono dalla ristrutturazione tardo capitalista dell’ultimo quarantennio e dai suoi pesanti costi sociali, non certo dai migranti.
A questo punto l’Unione europea si trova davanti ad un bivio. Da un lato, può continuare a conformarsi alle politiche di chiusura e respingimento finora prevalse. Dall’altro, potrebbe invertire la rotta, promuovendo politiche di accoglienza ben programmate e tali da consentire un inserimento positivo dei migranti, vantaggioso per tutti.
Anche in questa decisiva partita, l’Ue gioca la sua capacità o meno di svolgere un ruolo di cerniera tra Nord e Sud del mondo riprendendo la vocazione cosmopolita del Vecchio Continente. Diversamente, si limiterà ad una funzione di mera compensazione a valle degli squilibri che l’attraversano e che non si dimostra in grado di correggere.
* Fonte: Ignazio Masulli, il manifesto
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