Anche Damasco entra a Rojava, gli Usa non si ritirano più. 200 mila gli sfollati
Damasco ha risposto alle «porte aperte al dialogo» di Rojava: domenica, dopo un incontro in una base russa tra Sdf (Forze democratiche siriane, federazione multietnica e multiconfessionale del nord della Siria) e il governo centrale, le truppe del presidente Assad hanno iniziato la loro marcia.
In poche ore hanno attraversato Raqqa e Tabqa e si sono portate al confine con la Turchia, secondo l’intesa raggiunta: l’ingresso a Kobane e Manbij. Mentre l’aviazione turca proseguiva incessante nei bombardamenti aerei, i governativi si sono subito trovati di fronte ai nemici degli ultimi otto anni di guerra civile, l’Esercito libero siriano e le milizie islamiste (con i qaedisti dell’ex al-Nusra in prima fila), da anni ormai al soldo di Ankara, da Idlib ad Afrin. Scontri diretti si sono registrati tra Ain Issa e Celebe.
Secondo quanto riportato ieri da Aldar Xelil, membro del Tev-Dem, governo della Federazione del Nord, «il regime ha preso posizione sul confine da Derik a Sere Kaniye e da Tal Abyad a Qamishlo»: «L’amministrazione politica e la sicurezza interna restano all’Amministrazione autonoma», ha aggiunto a riprova di quanto dichiarato da altri esponenti di Rojava, ovvero l’inesistenza al momento di un accordo politico, almeno all’apparenza.
Alla base ci sarebbe un «memorandum d’intesa puramente militare, relativo alla protezione dei confini», afferma il Free Media Unit dell’Amministrazione autonoma. Indiscrezioni riportate dal quotidiano filo-saudita al Araby al Jadeed parlano invece di un possibile scioglimento delle Sdf e del loro inserimento nell’esercito.
La mossa damascena non è piaciuta agli Stati uniti che in poche ore hanno compiuto l’ennesima giravolta: dati in partenza, i mille soldati Usa che Trump voleva ritirare dalla Siria sono tornati nelle loro posizioni, fanno sapere fonti militari a Kobane: «Gli americani sono sul ponte che conduce a Manbij per impedire l’avanzata del regime. Avevano lasciato le loro posizioni sulla collina di Mistenur a Kobane la scorsa notte, ma sono rientrati in città». In serata la tv di Stato siriana dava per certo l’ingresso a Manbij dell’esercito di Assad.
Di certo l’accordo tra Damasco e Rojava, ovviamente benedetto dai russi, scompiglia le carte e fa esplodere la contraddizione. Mosca si ritrova tra due fuochi, quello turco e quello siriano, e pare intenzionata a trarre il massimo profitto dallo scontro e dalla confusione che regna nello Studio ovale.
Ankara, da parte sua, non fa passi indietro e annuncia l’offensiva su Manbij e Kobane. E continua a bombardare dal cielo, evitando accuratamente di inviare propri soldati. Ad avanzare sul terreno sono migliaia di miliziani islamisti, responsabili come in passato di brutali azioni contro i civili.
Come l’uccisione a sangue freddo della segreteria del partito Future Syria e nota attivista per i diritti delle donne, Hevrin Khalaf, giustiziata sabato insieme ad altre otto persone mentre viaggiava sull’autostrada M4, che taglia in due il nord della Siria.
Atrocità uguali a quelle commesse dal governo turco che colpisce indiscriminatamente le comunità (132 i civili uccisi, bilancio al ribasso che tiene conto solo delle persone fisicamente individuate), convogli di sfollati (domenica a Sere Kaniye 11 morti e 75 feriti), ambulanze (la Mezzaluna Rossa ha perso ieri un medico), impianti idrici e campi profughi.
Qui, accanto a decine di migliaia di civili, ci sono i miliziani dell’Isis prigionieri insieme alle famiglie. Bombe, in questo caso, chirurgiche, necessarie alle evasioni: domenica quasi 900 tra miliziani e familiari sono scappati dal campo di Ain Issa.
Il presidente turco Erdogan rigira l’accusa: a far evadere gli islamisti, dice, sono le Sdf speranzose così di attirarsi solidarietà internazionale (storia ripresa anche da Trump su Twitter). La narrazione turca dell’operazione in corso – Rojava come di un covo di terroristi – tralascia il palese aiuto (documentato in passato dal quotidiano turco Cumhuriyet) dei servizi segreti di Ankara all’Isis e dando per certi avanzamenti sul terreno che le Sdf negano, a partire dal controllo delle due strategiche città di frontiera, Ras al-Ain e Tal Abyad. Ci sono ancora le Forze democratiche.
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Rojava, 200mila sfollati: «Acqua, cibo e medicine non bastano»
Siria. In fuga verso l’interno, da Hasakeh a Raqqa. Ad accoglierli le organizzazioni locali, scuole abbandonate, stazioni di benzina, famiglie che aprono le porte. Quasi impossibile attraversare il confine con l’Iraq
A piedi, su carretti stracarichi di quello che si spera possa servire ad affrontare una nuova fuga dalla guerra. Chiamarla emergenza sfollati non basta: negli ultimi otto anni la Siria ha perso cinque milioni di persone, rifugiate all’estero, altri sette milioni gli sfollati interni.
A Rojava stavano tornando dopo la liberazione delle comunità settentrionali dall’occupazione islamista. Ora scappano di nuovo. Secondo l’Onu sono 160mila gli sfollati, numero che cresce a ritmi spaventosi. Secondo l’Amministrazione autonoma sono molti di più: almeno 200mila.
«Tutte le città lungo il confine sono state colpite da pesanti bombardamenti – ci dicono gli attivisti del Rojava Information Center (Ric) – La situazione peggiore è nelle città e le periferie di Tal Abyad e Sere Kaniye, dove ai raid aerei si aggiungono i combattimenti terrestri. È da qui che arriva la maggior parte degli sfollati, diretti verso sud, verso Hasakeh and Raqqa».
Non solo curdi, a dimostrazione della ricchezza multietnica di Rojava e dell’intera Siria: «Una varietà di comunità etniche e religiose sta subendo la stessa sorte. Curdi, arabi, musulmani, cristiani».
Scappano il più possibile lontano dal confine: «A Tel Temer e nei villaggi intorno – continua Rci – sono arrivate 1.300 famiglie. Vediamo persone rifugiarsi in scuole abbandonate, stazioni di benzina, ospiti di altre famiglie. Ma è la città di Hasakeh quella che sta accogliendo il numero maggiore di sfollati, 100mila persone, la metà del totale. La situazione è pessima. Buona parte della città non ha più accesso all’acqua e cibo e medicinali non sono sufficienti. Molte ong hanno lasciato il nord della Siria o hanno ridotto lo staff».
Raggiungiamo al telefono Cecilia domenica pomeriggio mentre arrivano le prime notizie di un bombardamento turco a Sere Kaniye contro un convoglio di civili in fuga. Il bilancio finale sarà di 11 morti e 73 feriti; tra le vittime un giovane giornalista curdo, Seed Ehmed, corrispondente di Hawar News.
Cecilia è volontaria di Heyva Sor a Kurd (Mezzaluna rossa curda, in Italia ha lanciato una raccolta fondi su buonacausa.org/cause/emergenza), che si occupa a Rojava di assistenza sanitaria: «Per gli sfollati il confine iracheno sta diventando un problema: le autorità del Kurdistan iracheno fanno passare solo chi ha già la residenza o chi attesta di avere una parte della famiglia nella regione – ci spiega – Dunque chi non va a gravare come sfollato o rifugiato, ma ha già appoggi interni. Ad Aleppo è impossibile andare: sono in corso scontri, spostarsi in quella direzione sarebbe un massacro. Inoltre molti viaggiano a piedi e molti altri vogliono restare dentro i territori controllati dalle forze curdo-arabe».
«L’Unhcr si occupa delle tende attraverso le organizzazioni sul campo. Heyva Sor si occupa della parte sanitaria con unità mobili di primo soccorso, rifornimenti di medicine e vitamine e sta attrezzando strutture per l’accoglienza».
* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto
photo: ANF News
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