by Daniela Preziosi * | 17 Settembre 2019 8:41
La scissione di Matteo Renzi, annunciata da un anno – di volta in volta negata, confermata, posticipata in un interminabile andirivieni di ‘notizie’ contraddittorie – potrebbe materializzarsi in queste ore. A gocce, per stare ogni giorno sulle prime pagine e sulle homepage. Il più caustico è Arturo Parisi, che twitta: «L’annuncio di Renzi pare un atto di forza, in verità è un modo per dire ‘io esisto’». Secondo il tam tam del Transatlantico l’annuncio arriverà oggi dalle pagine di Repubblica. Poi stasera un’altra tranche da Porta a Porta (Raiuno). Domani un altro talk in tv, poi la celebrazione dell’addio alla Leopolda di Firenze.
I NUOVI GRUPPI PARLAMENTARI però stentano. Alla camera non sarebbero ancora arrivati ai venti sì indispensabili. Al senato invece, grazie al regolamento varato dalla presidenza Grasso, una sigla che non si è presentata al voto non può fare il gruppo. Si vocifera della disponibilità del «Partito socialista italiano» di Riccardo Nencini. Ma è difficile credere che Renzi, in uscita da un partito che giudica troppo di sinistra, approdi in un partito socialista.
NON CHE MANCHINO le assurdità e i paradossi in questa storia: il renzianissimo presidente dei senatori dem Marcucci fa sapere che non si muove. Dunque il Pd a Palazzo Madama continuerà ad avere un capogruppo fidatissimo del leader fuoriuscito. C’è agitazione nel gruppo misto: i renziani potrebbero entrare in massa e pretenderne la presidenza. Ma le «masse» non si vedono. Per ora si fanno i nomi di Davide Faraone, Tommaso Cerno, Teresa Bellanova, Nadia Ginetti, Riccardo Nencini, Mauro Marino, Eugenio Comincini al Senato. E di Roberto Giachetti, Anna Ascani, Luciano Nobili, Maria Elena Boschi, Luigi Marattin, alla Camera.
GIACHETTI NON SARÀ capogruppo, come era circolato. Ieri con un video su facebook ha annunciato le dimissioni dalla direzione Pd. È stato «frontman» dello scontro antigrillino e ora, con il governo M5S-Pd, dice, «non potrei continuare a stare in una cabina di regia politica che deve sostenere questo progetto, non essendone convinto fino in fondo». Ragione per cui farà il deputato semplice anche nel nuovo gruppo.
INVECE I RENZIANI «LEALISTI» della corrente di Lorenzo Guerini (neoministro della Difesa) e Luca Lotti fanno sapere che non si muovono. Simpatizzano ma non si muovono anche i tre renziani che ieri hanno giurato da sottosegretari (Morani, Malpezzi, Margiotta e Scalfarotto), almeno per ora. Anche se la parola data di questi tempi non è una gran garanzia. Ieri dal Pd anche renziano sono arrivati inviti a non fare scissioni.
Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori: «Vedo anch’io i rischi di un Pd retro, ma non credo ai partiti personali. Preferisco fare la battaglia riformista in un partito plurale e contendibile». Interessante sottolineatura, quest’ultima: la nuova formazione sarà a immagine e somiglianza di Renzi, non «contendibile», appunto. Anche il sindaco di Firenze Dario Nardella ammette che la mancanza di esponenti toscani al governo (l’ultima contestazione ispirata dal senatore di Scandicci) è un «peccato» ma non al tale da provocare la rottura.
LA RICERCA DI UN CASUS BELLI per la scissione è ardua. È noto che il governo con i 5 stelle è nato anche – per non dire innanzitutto – per iniziativa di Renzi.
E che ogni passaggio è stato «concordato» con Renzi stesso, come ha ricordato Dario Franceschini in un’intervista a Repubblica (il 12 settembre). I renziani hanno contestato una «Bandiera rossa» cantata alla festa di Ravenna: ma è stato l’ex dc Pierluigi Castagnetti a dire che nel comizio di Zingaretti, in quella stessa occasione, non c’era niente di veterocomunista.
GLI ALIBI STANNO A ZERO, la ragione vera e concreta della scissione non è camuffabile. Renzi vuole acquisire un potere di condizionamento sull’azione del governo, dall’agenda alle future nomine. Dalla prima fila e non dalla regia, come è stato finora. Azionista del governo, ma non più costretto a fare i conti con il Pd di Zingaretti.
IL QUALE PERÒ HA FATTO DI TUTTO, fino a cambiare la sua linea, per tenere il Pd unito e scongiurare la scissione. Che non sarà «consensuale», avverte Enrico Letta. Ma c’è già Goffredo Bettini che, dopo aver provato a dissuadere Renzi, è al lavoro per evitare che la rottura sia traumatica e resti «sui binari del dialogo, di un rapporto costruttivo, direi di amicizia. L’essenziale è ritrovarsi alleati nel centrosinistra per battere Salvini», ha detto al Corriere della sera. Così «il male della divisione può diventare un bene, articolando e allargando la proposta delle forze democratiche». Sempreché la nuova cosa attiri davvero quelli che nel Pd non sarebbero mai entrati. Circolano i nomi di forzisti contrari a un centrodestra a trazione salviniana. Ma la capacità di aggregare culture diverse fin qui non è stato il forte di Renzi.
* Fonte: Daniela Preziosi, il manifesto[1]
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