La tratta delle ragazze dalla Nigeria all’Italia via Libia: «Preghi di morire»

La tratta delle ragazze dalla Nigeria all’Italia via Libia: «Preghi di morire»

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Blessing come molte altre ragazze nigeriane ha accettato l’allettante proposta di lavoro in Libia come collaboratrice domestica per un salario di 150.000 naira (circa 400 euro, tre volte lo stipendio medio nel suo paese). Una volta in Libia la “signora” le ha svelato che tipo di lavoro avrebbe dovuto fare, akwuna (la prostituta) così lei le ha detto «ma non è un lavoro domestico». La “signora” le ha risposto «sì che lo è».

Blessing è stata minacciata di morte e chiusa in una stanza per quattro giorni senza cibo. «Uscirai quando restituirai il tuo debito per il viaggio (4 mila euro)». È iniziata così la discesa nei sotterranei dello sfruttamento sessuale, si è liberata ed è scappata con un ragazzo che è stato ucciso dai miliziani dell’Isis, lei invece è sopravvissuta solo perché in stato di gravidanza, ma è stata tenuta segregata e violentata per tre anni finché i soldati libici l’hanno consegnata all’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) che l’ha aiutata a rientrare in Nigeria. Adesso si trova in un rifugio gestito dall’agenzia nigeriana anti-tratta. Quella di Blessing è una delle 76 storie descritte nell’ultimo report di Human Rights Watch, il cui titolo You pray for death (Preghi di morire) è tratto dal racconto di una delle ragazze intervistate.

La maggior parte delle vittime di tratta nigeriane (più di 9 su 10) proviene, secondo l’ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodoc), dallo stato di Edo. Il numero di “potenziali” vittime della tratta nigeriana in Italia è cresciuto drammaticamente negli ultimi anni. Secondo Oim nel 2017 l’aumento è stato del 600% e si stima che riguardi l’80% delle ragazze che arrivano dalla Nigeria (in questi ultimi mesi il flusso risulta molto ridimensionato, segno che i trafficanti sono alla ricerca di nuove rotte).

Il viaggio negli ultimi anni ha seguito la rotta libica e poi via mare nel Mediterraneo con lo scopo preciso di inserire le ragazze nei progetti di assistenza per richiedenti asilo in modo da farle avere un documento regolare. Chi arriva in Italia mantiene il segreto con la famiglia, manda fotografie che la ritraggono come barista, sarta, parrucchiera… alcune negli anni diventano madam i cui guadagni danno un impulso notevole alla ricchezza di Benin City, dove hanno costruito case, negozi… Potremmo dire che lo sviluppo della città è lastricato dai corpi delle donne che hanno battuto le strade italiane.

Forse più drammatica è la situazione delle ragazze che ritornano in Nigeria dove oltre alla tratta devono affrontare la povertà e lo stigma («le ragazze che tornano dall’Europa stanno costruendo case per le loro famiglie e tu sei tornata senza niente …») e i progetti di reinserimento risultano ancora poco adeguati.
La situazione è fluida: l’attività delle ong, dell’agenzia nazionale nigeriana contro la tratta e i media hanno accresciuto la conoscenza del fenomeno, tant’è che le ragazze che partono ora sanno il lavoro che andranno a fare, ma restano inconsapevoli dello sfruttamento e del debito da pagare.

Le madam sono convinte di essere un aiuto per le ragazze e infatti amano definirsi sponsor: una delle reclutatrici ha dichiarato alla Reuters che «le ragazze che vogliono venire in Italia sono talmente tante che non è più necessario ingannarle per convincerle a partire». La novità degli ultimi mesi sarebbe, secondo Don Carmine Schiavone delle Caritas di Aversa, la tratta secondaria: «Le ragazze una volta in Italia se non riescono a restituire il debito lo azzerano con la cessione di un rene, cornee o altri organi».

* Fonte: Fabrizio Floris, il manifesto



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