Di Maio si arrende, gli basta un ministero. L’ultima parola a Rousseau

by Andrea Colombo * | 3 Settembre 2019 9:35

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La strada è libera. Almeno per quanto riguarda la trattativa tra i partiti. Di Maio non farà il vicepremier, rivendicando però un ministero di primo piano. Dunque sarà comunque capo della delegazione 5S, dal momento che è Conte stesso a dichiarare la sua non appartenenza al Movimento. Resta l’incognita piattaforma Rousseau, che verrà svelata solo oggi, dopo il voto tra le 9 e le 18. E resta il dubbio sui numeri reali del governo al Senato. Il no della piattaforma o del Senato affosserebbe il governo, ma dei sì di misura renderebbero la navigazione molto accidentata.

ALLA FINE DELL’ENNESIMA giornata di vertici e riunioni il macigno che impediva ogni accordo viene rimosso: Di Maio rinuncia al vicepremierato e lo annuncia di persona su Fb. Il leader politico accoglie la proposta avanzata domenica dal dem Dario Franceschini e che riprendeva quella messa in campo da Beppe Grillo: nessun vicepremier. Lo fa ripetendo che, al contrario di quel che sostiene il Pd, «Conte è un premier super partes». Di conseguenza, «se ci fosse stato un vice del Pd era giusto che ci fosse un vice 5S». Con la consecutio non c’azzecca ma il nodo era politico, non grammaticale, e la rinuncia del pentastellato, mette fine alla querelle.

Poco dopo conferma l’«ottimismo» Zingaretti, tipo all’antica che evita il comizio su Fb e si affida a un laconico comunicato letto ai giornalisti. Registra «passi avanti». Conferma di vedere la missione del governo nascituro all’opposto di come la vede Di Maio. Si procede verso un governo che «cambi radicalmente quel che abbiamo visto sinora». Cioè quel che Di Maio esalta e rivendica: la strada sulla quale proseguire, con l’appoggio di chiunque sia disposto a dare una mano, in questo caso dell’innominabile e dunque non citato Pd.

SULLA RESA DI DI MAIO pesa la nuova scomunica di Grillo, consegnata ieri alle colonne del Fatto e stavolta rivolta direttamente a «Gigi», che pare incapace «di cogliere il bello intrinseco nel poter cambiare le cose» e che fa giochini con «i punti che raddoppiano come alla Standa». Ovvio che il fondatore sia «incazzato». Il mazzolato riunisce lo stato maggiore, si dichiara orgoglioso dei ministri uscenti e del lavoro fatto, assicura che tutto dipende dal voto della piattaforma. Patuanelli e Di Stefano confermano: «Se prevalgono i no Conte dovrà trarne le conseguenze». Quel voto è davvero l’ultimo ostacolo. Di Battista, interrogato sulla sua scelta non risponde. Di Maio, nel video, sottolinea che «non c’è un voto giusto e uno sbagliato». La prima versione del quesito che verrà sottoposto oggi agli iscritti anteponeva il No al Sì, salvo correzione in extremis.

Basterà a convincere la maggioranza degli elettori pentastellati? Probabilmente sì ma non è facile che si tratti di una maggioranza schiacciante. La realtà è che nel «monolite» pentastellato si è aperto per la prima volta un vero conflitto politico, che si ripercuoterà nell’azione di governo e dal cui esito, dagli equilibri che ne verranno fuori, dipenderanno la stabilità dell’esecutivo e l’intero quadro politico italiano futuro.La bocciatura sarebbe fatale. Una vittoria di misura, che il Pd già mette nel conto, non pregiudicherebbe nulla ma moltiplicherebbe la forza di Luigi Di Maio, dal momento che il «capo politico» rivendicherebbe per se stesso il ruolo di garante di quella parte di Movimento contraria all’accordo. Capacità di impatto che risulterebbe ulteriormente accresciuta se tra i ministri ci fosse anche Di Battista. L’ipotesi ha circolato per alcune ore. Probabilmente è solo una boutade ma se così non fosse per il Pd non sarebbe facile ingoiare un nuovo boccone amarissimo.
Anticipando il video di Di Maio, anche Conte si è rivolto alla base 5S, tramite Fb, per chiedere il voto favorevole nella consultazione di oggi. «Con Zingaretti e Di Maio abbiamo una grande opportunità per migliorare e cambiare l’Italia, per aprire una stagione riformatrice. Abbiamo grandi e buone idee». Poi prende il toro per le corna: «Non mi sfuggono le ragioni di perplessità. Ricordo che l’M5S ha detto in modo molto chiaro che se non avesse avuto la maggioranza avrebbe realizzato il programma con le forze disponibili a farlo».

SUPERATE LE RAPIDE Rousseau, resterà da affrontare il voto del Parlamento. Se i due partiti maggiori fossero soli, al Senato la maggioranza non ci sarebbe. La Lega ieri ha parlato, per poi smentire ogni interessamento, di 9 senatori pentastellati pronti a barattare il loro No al nuovo governo con un seggio sicuro alle prossime elezioni. Vero o falso che sia, qualche voto dei 5 Stelle, e non solo di Paragone, probabilmente mancherà. Ieri sera però il confronto tra delegazioni si è allargato per la prima volta ufficialmente a LeU, che dovrebbe entrare nella maggioranza, aggiungendo qualche voto prezioso, e probabilmente anche nel governo. La fiducia ci sarà.

* Fonte: Andrea Colombo, IL MANIFESTO[1]

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