Brexit Party. Il premier Boris Johnson e il «no deal» passano in minoranza
Un voto di sfiducia al governo di «Boris» vorrebbe dire nuove elezioni. Forse il 14 ottobre. Dilemma Labour sulla data
Ieri è stata la prima giornata di lavori parlamentari dopo la pausa estiva e l’inizio della prova costumi delle elezioni anticipate. Questa sarà la settimana della resa dei conti fra le due unioni (europea e britannica), fra leave e remain, governo e parlamento.
NON È DATO SAPERE mentre scriviamo quale sarà l’esito della votazione tenutasi ieri in tarda serata sulla mozione denominata Standing Order 24 (So24): ufficialmente per dibattere da domani ed entro la settimana una legge che escluda a priori un’uscita senza accordo della Gran Bretagna dall’Unione europea il prossimo 31 ottobre – costringendo così il governo ad accettare un’eventuale proposta di Bruxelles per un posticipo dell’articolo 50 del trattato di Lisbona (che regola l’uscita di un Paese membro dall’Ue già applicato da Theresa May) fino al gennaio 2020, che permetta una rinegoziazione o rimetta l’eventuale accordo al giudizio dei deputati; in realtà esprimendo un voto di sfiducia al governo Johnson che innescherebbe quasi automaticamente il conto alla rovescia elettorale verso nuove elezioni il prossimo 14 ottobre. Questo per arrivare all’importante summit del 17 ottobre con la controparte europea, fissato già da Theresa May, con una posizione finalmente netta.
Ora si sa chi ha prevalso nel mezzogiorno e mezzo di fuoco fra il governo euroscettico di Boris Johnson e un riottoso Parlamento infestato di «traditori» eurofili provenienti anche dalle file del suo partito, che aveva cercato di richiamare all’ordine minacciandoli di espulsione dal partito, ma che ieri avevano tutta l’aria di non essersi lasciati intimidire dalla perdita della poltrona. Prima del voto l’aula aveva ascoltato la relazione del ministro per la Brexit Michael Gove sulla preparazione logistica del paese a un’uscita senz’accordo foriera di ammanchi alimentari e di infinite altre difficoltà.
È STATO L’ATTO DI APERTURA di un’altra settimana «cruciale» nell’opera buffa ma non troppo denominata Brexit. Lo scorso 28 agosto Boris Johnson aveva fatto gridare al golpe con l’annuncio di voler sospendere il parlamento dal 9/12 settembre al 14 ottobre prossimo: ufficialmente per permettergli di mettere insieme il programma del suo governo da far presentare alla sovrana in quella data come di rito; in realtà per impedire ai riottosi poli-partisan di aggregarsi in una massa critica anti-brexit capace di posticipare la data di uscita quando non di evitare a priori un’uscita senza accordo.
Già nel primo pomeriggio una nuova bordata colpiva la filibusta di «Boris», portando il suo governo da una maggioranza di uno a minoranza di uno. Il deputato Philip Lee, ex ministro della Giustizia, mollava i Tories nella loro deriva isolazionistica per entrare nei Libdem.
ALTRA EX-MINISTRA ad andarsene è stata la remainer Justine Greening, che ha sbattuto la porta sferzante: «Il partito conservatore ormai è diventato il Brexit Party». Se la tentennante Theresa May perdeva un pezzo di governo ogni giorno, il risoluto Johnson non ha fatto altro che istituzionalizzare la guerra civile nel partito, dove ormai trionfa il tutti contro tutti.
Resta determinato a uscire il 31 «senza se e senza ma» Johnson, accusando i ribelli di minare le possibilità di rinegoziazione con l’Ue, che secondo lui stanno progredendo. Peccato che ciò non risulti esattamente alla controparte europea. «Non c’era nulla sul tavolo, nemmeno uno schizzo di come potrebbe assestarsi la situazione», secondo fonti diplomatiche europee riportate dal Guardian. Lunedì aveva detto di non volere elezioni anticipate ma è chiaro che, in caso di sconfitta, oggi avrebbe presentato una mozione secondo il Fixed Term Parliamentary Act per convocarle. Secondo quella legge, promulgata dal governo di coalizione presieduto da Cameron nel 2011, il premier necessita di due terzi del parlamento per convocare delle elezioni che anticipino le prossime, previste nel giugno 2022. Ma ha il potere di decidere la data: e qui scatta il dilemma per il Labour di Corbyn, che a queste stesse elezioni si dice pronto ormai da mesi: se i laburisti votassero per le elezioni sarebbero esposti al rischio che Johnson decida di posporle al 31 ottobre, quando il Paese sarebbe ormai uscito quasi certamente senza accordo. Le urne sarebbero evitate qualora un governo alternativo fosse capace di ottenere la maggioranza entro le prossime due settimane.
SAREBBE LA QUARTA VOLTA alle urne in cinque anni: salubre ginnastica democratica o totale dissanguamento di risorse, energie, idee. Per delle elezioni motivate e combattute unicamente su Brexit, che lasciano un abisso di incertezza su tutto il resto su cui di solito le varie forze politiche si misurano elettoralmente: l’austerità, le tasse, la politica estera, quelle cose lì. L’ombra scura è che Johnson, favorito nei sondaggi (!) godrebbe dell’appoggio sbavante di Nigel Farage, che da tempo lo lusinga con l’idea di un’alleanza Tory-Brexit party.
* Fonte: Leonardo Clausi, IL MANIFESTO
Foto di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay
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