by Marco Revelli * | 8 Agosto 2019 10:24
«Dagli amici mi guardi Iddio». Potranno ben dirlo i valorosi difensori della Val di Susa che da trent’anni tengono con dignità la posizione, di questi amici d’occasione pentastellati che giunti al dunque, dopo aver perduto tutto anche l’onore, hanno gettato quella nobile causa sul palcoscenico truccato della Bisanzio senatoriale. Una questione grave, tremendamente seria, tecnicamente complessa, su cui grava una pesante ignoranza dei dati reali e un carico di interessi gigantesco, liquidata, in una mattinata di fine stagione – i senatori con i trolley già pronti e sotto pelle il timore di perdere il posto a ferie consumate – in un passaggio parlamentare surreale e grottesco, praticamente senza discussione e con un esito scontato in partenza.
D’ora in poi anche il più sprovveduto dei Sì Tav potrà proclamare che l’organo sovrano si è pronunciato, e «l’Opera s’ha da fare. Punto!».
È stato questo il prezzo pagato da chi davvero ci ha creduto alla battaglia contro un’opera inutile, dannosa e dispendiosa, al bisogno disperato di un movimento politico allo sbando di tentare di salvare una faccia perduta da tempo. E sopravvivere qualche mese al divoramento da parte del suo partner di governo. Rivela quale potere dissolvente e destrutturante abbia la politica – quando declinata nella forma vuota e insieme arrogante del populismo: quello, ricordate, che dichiarava di voler rappresentare il basso contro l’alto – nei confronti delle espressioni più autentiche di ciò che davvero proviene «dal basso».
Mostra, plasticamente, la fine dell’equivoco che voleva l’insorgenza populista davvero trasversale tra destra e sinistra, anzi potenzialmente veicolo di antiche istanze ribelli, e l’approdo di quell’onda lunga su posizioni esplicitamente di destra, anzi di destra estrema, innervate nel precedente sistema di potere e colluse con i suoi peggiori gruppi d’interesse, qual è appunto la Lega salviniana.
Questo ci dice la mattina politica, pur nella sua furia del dileguare: che il grillo parlante di ieri si è rivelato un grillo impotente. Un trojan, che ha veicolato l’uomo nero, il quale poi da avatar si è fatto padrone. Ma c’è anche un’altra «rivelazione», filtrante tra le maglie strette della giornata a Palazzo Madama. Ed è quella di una maggioranza trasversale e occulta, omogenea al di là dei giochi delle parti, famelica nel servizio a interessi altrettanto trasversali e insaziabili, portatrice di una visione del mondo tutto sommato condivisa – tanto condivisa quanto distruttiva -, che risponde al comune dogma dell’enrichissez vous e all’ecumenico appello del partito degli affari, sorda a ogni richiamo alla sobrietà, alla cultura del limite, al rispetto della gente e dell’ambiente. Va dai neofascisti di Fratelli d’Italia ai post-tutto del Pd, passando per i sovranisti della Lega e i neoliberisti a oltranza di Forza Italia. Hanno votato tutti insieme, prima contro la mozione 5Stelle ostile al Tav, poi a favore delle reciproche mozioni ad esso favorevoli, in una commistione di amorosi sensi che lascia senza parole. La Lega ha votato quella del Pd, il Pd quella della Meloni, Forza Italia tutte e due. Uniti in un abbraccio mortale per le finanze e la sostenibilità ambientale del Paese, ma vitale per i rispettivi azionisti di maggioranza.
Poi, liquidata la pratica Tav come il macellaio smaltisce l’ossame residuo, è incominciato il ballo vero: quello che ha come posta il Governo e la sua tenuta. Quello che si gioca fuori dalle sedi istituzionali e che vede un unico dominus, l’uomo a cui tutti gli altri hanno regalato scena e ruolo di primattore.
Matteo Salvini (ancora lui!), in fondo l’utilizzatore finale della sceneggiata, a cui il combinato disposto dell’insipienza Cinquestelle, del gioco al massacro renziano dentro il Pd e dello stato comatoso di Forza Italia, permette di tenere il governo – e col governo il Paese – appeso al proprio dito. E allora la mattina scipita del Senato una verità, profonda, ce la consegna, ed è che la fortuna di Salvini, la sua irresistibile ascesa, quel suo gonfiarsi senza limite nonostante l’orrore che emana dai suoi gesti e dalle sue parole, è dovuta a un semplice fattore di fisica politica: al fatto che intorno a lui non c’è nessun materiale resistente. Che il suo dilatarsi avviene in un vuoto che fa paura.
* Fonte: Marco Revelli, IL MANIFESTO[1]
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