by Rachele Gonnelli * | 31 Agosto 2019 9:30
La terza guerra civile in Libia, focalizzata su Tripoli, si appresta a valicare anche il suo quinto mese di durata e non accenna a profilarsi alcun approdo. Anzi, il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres – che fu sorpreso dallo scoppio del conflitto mentre si trovava proprio a Tripoli lo scorso 4 aprile – non più tardi di tre giorni fa ha ricordato che il protrarsi delle interferenze di potenze straniere, con la presenza sempre più massiccia di rifornimenti di armi pesanti in violazione dell’embargo Onu, di mercenari e combattenti stranieri, può solo portare a un conflitto più esteso, a una «guerra civile piena».
Il bilancio dei morti è ormai considerato a cifra piena, le vittime – quasi tutte tra i belligeranti – hanno superato quota mille e gli sfollati quota 100 mila. Lunedì scorso gli assedianti del generale Kalifa Haftar hanno tentato di riconquistare la loro ex base strategica a Gharyan – cittadina a un centinaio di chilometri a sud di Tripoli che era la testa di ponte dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) ed è stata persa alla fine di giugno – ma la riconquista non è riuscita. Ieri il premier di Tripoli Fayez Serraj ha potuto annunciare nuovamente che «Gharyan è nostra».
Nel frattempo il suo «simil-Salvini», il ministro dell’Interno Fathi Bashaga, uomo forte della città-Stato di Misurata, si è recato a colloquio con il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu per chiedere una cooperazione militare ancora più stretta, impegno ottenuto grazie al consueto alibi del riconoscimento Onu del governo di accordo nazionale che ormai è pero solo uno degli attori della guerra e non accenna più a seguire le indicazioni dell’Onu quanto a cessate il fuoco di lungo periodo e ripresa del dialogo politico con l’altra parte.
Secondo l’agenzia di informazione economica Bloomberg nell’attuale conflitto per il controllo della capitale libica, ma soprattutto per il controllo delle sue leve finanziarie – il fondo sovrano Libyan Investment Autority (Lia) e la Banca centrale che ripartisce i proventi del petrolio – ed economiche – la compagnia petrolifera statale Noc ma anche i lucrosi contratti per la ricostruzione delle infrastrutture devastate da otto anni di guerra civile a ondate – sono sempre più coinvolti gli Emirati arabi uniti e la Turchia. Le armi che queste potenze regionali fanno affluire in Libia in violazione dell’embargo del 2011 sono: Uav di fabbricazione cinese tipo Wing Loong, altri tipo Bayraktar prodotti in Turchia, sistemi terra-aria russi Pantsir, veicoli corazzati turchi, oltre ai sistemi anticarro statunitensi Javelin ceduti ad Haftar dalla Francia com’è risultato dopo il ritiro dell’Lna da Gharyan a giugno, con grave imbarazzo per l’Eliseo.
In una intervista a Le Monde l’inviato Onu per la Libia Ghassan Salamé una settimana fa ha detto che la tara «più grave» sulla pace in Libia proviene dalle interferenze estere di «una decina di Stati». Sono loro che stimolano le varie fazioni a continuare a combattersi. E a loro – Italia inclusa – spetta disinnescare il conflitto.
* Fonte:
IL MANIFESTO[1]Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2019/08/per-lonuora-la-guerra-in-libia-rischia-di-deflagrare/
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