by Andrea Colombo * | 23 Agosto 2019 9:42
Visibilmente contrariato Sergio Mattarella accetta quel che si era impegnato a evitare: un rinvio. Sarà necessario un secondo giro di consultazioni, martedì e mercoledì. Dal momento che M5S e Pd si esprimeranno nella secondo giornata sono cinque giorni pieni per raggiungere un accordo che ieri ha volato sulle montagne russe, a tratti sembrando a portata di mano per apparire un secondo dopo quasi impossibile. In questa situazione Mattarella non se la è sentita di assumere una decisione che «non può essere presa alla leggera» come lo scioglimento delle camere. Nella sua breve comunicazione, dopo due ore di pausa dall’ultima consultazione, ha sottolineato che il presidente ha «il dovere ineludibile di non precludere l’espressione di volontà maggioritaria del Parlamento» ma anche quello di «richiedere nell’interesse del Paese decisioni sollecite». Quella della settimana prossima sarà l’ultima chiamata.
NELLE DUE ORE DI PAUSA Mattarella non ha fatto telefonate, il che non significa necessariamente non aver fatto arrivare precisi messaggi. Aspettava un segnale, che è arrivato quando nella riunione dei parlamentari a 5 stelle Di Maio ha finalmente parlato chiaramente di avvio della trattativa con il Pd. Ora Mattarella si aspetta che mercoledì i due partiti arrivino non solo facendo quello che avrebbero dovuto fare ieri, ufficializzare il perimetro della nuova maggioranza, ma anche con il nome di un premier che non dovrà essere un prestanome o peggio un fantoccio.
L’ultimo scorcio di giornata registra un rasserenamento, con l’impegno dei 5S a chiedere un incontro ai capigruppo del Pd mettendo al primo posto «il taglio dei parlamentari sul quale chiederemo chiarezza» e che per i pentastellati è «il presupposto per il prosieguo della legislatura», come dice il capogruppo Patuanelli. Zingaretti replica a propria volta con il mignolo teso: «Dai punti programmatici esposti da Di Maio emerge un quadro su cui si può sicuramente iniziare a lavorare».
IN MATERIA DI TAGLIO dei parlamentari Mattarella ha le idee chiare. La soluzione del resto è nota ed è la stessa a cui pensa il presidente: accompagnare la riforma con una revisione della legge elettorale. Di fatto con il ritorno pieno al proporzionale. Ma il taglio dei parlamentari è solo la punta emergente di un iceberg ben più voluminoso. Quel che ha costretto Mattarella al rinvio è stata l’ambiguità dell’M5S. Né di fronte ai giornalisti, né prima, nel colloquio con il presidente, Di Maio aveva espresso apertamente l’intenzione di dar vita a una maggioranza con il Pd. Aveva evitato di pronunciare le parole che avrebbero permesso al capo dello Stato di registrare la conclamata volontà di dar vita a una nuova maggioranza. Non è stata una dimenticanza. Di Maio ha elencato i 10 punti di programma del nuovo governo senza alludere ad alcuna possibile trattativa, col tono tipico del Movimento prima del “contratto” del 2018: noi siamo la maggioranza, questo vogliamo fare, chi vuole può aggregarsi. Anche la Lega? «Se vuole», risponde il sottosegretario Di Stefano. Una posizione che da un lato sembra aperta a ogni soluzione, e scatena l’ira del Pd per cui la politica dei due forni non è tollerabile, mentre dall’altro nega al Pd il ruolo di socio di maggioranza a pieno titolo.
Salvini non resta con le mani in mano. Si dà da fare per rimettere in gioco la maggioranza gialloverde, largheggia in complimenti per Di Maio, allude a non meglio precisate voci pentastellate pronte a passare «dai no ai sì». Recitata la formula di rito, per cui «la via maestra sono le elezioni», offre tra le righe a Di Maio la guida di un nuovo governo gialloverde. Le voci leghiste parlano in serata di una ripresa di contatti: impossibile dire se sia la verità o una tattica studiata per complicare la vita ai 5S portando alle stelle la già lacerante indecisione. Il solo fatto concreto è che, anche dopo l’assemblea che inaugura la trattativa con il Pd, il secondo forno non viene davvero chiuso. Il problema con la Lega è infatti, secondo Patuanelli, il suo essere «il partito del boh». Non è precisamente una preclusione rigida.
MA ANCHE QUESTE, in ultima analisi, sono essenzialmente scuse. Il vero ostacolo che deve essere superato sono le divisioni interne ai due partiti, quelle tra chi l’intesa la vuole sul serio e chi è invece molto tiepido se non essenzialmente ostile. La cancellazione dei dl Sicurezza chiesta da Zingaretti non è certo un problema insormontabile e neppure la richiesta, ragionevole, di accompagnare il taglio dei parlamentari con adeguate riforme. Tutto sta a voler chiudere. Ieri, per tutta la giornata, è sembrato chiaro che né Zingaretti né Di Maio lo volessero. Se le cose sono cambiate lo sapremo in pochi giorni.
* Fonte: Andrea Colombo, IL MANIFESTO[1]
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