by Gianpaolo Contestabile, Susanna De Guio * | 10 Agosto 2019 14:27
Per comprendere il contesto in cui si muove la società guatemalteca alla vigilia della seconda tornata elettorale, domani 11 agosto, è necessario ampliare lo sguardo ben oltre il meccanismo parlamentare e riconoscere che i processi di trasformazione della realtà politica e sociale in Guatemala avvengono altrove, nel lavoro quotidiano delle organizzazioni indigene e contadine, dei coordinamenti in difesa dei diritti umani in lotta contro l’estrattivismo, proteggono il territorio e rivendicano il riconoscimento e il rispetto delle popolazioni indigene che costituiscono la maggioranza del paese, in un contesto di violenza politica allarmante che non entra nell’agenda dei candidati al governo.
Nella storia di Aura Lolita Chávez Ixcaquic, portavoce del Consiglio delle Popolazioni Ki’che (Cpk), si riflette la realtà di numerose leader indigene che ogni anno vengono assassinate e perseguitate per il loro impegno politico.
La vita di Lolita Chávez è dedicata alla lotta per il suo popolo e questo ha significato affrontare nel tempo una crescente minaccia alla sua incolumità fisica. In sei occasioni ha subito attentati destinati a ucciderla, è scampata alle pallottole quando hanno sparato al suo mezzo di trasporto o all’attacco della sua delegazione con machete, coltelli e bastoni.
Rappresentante del «Consiglio dei Popoli Ki’ches, in difesa della vita, della natura, della madre terra e del territorio», Lolita è uno dei volti noti dell’organo di autogoverno che le comunità del millenario popolo Maya Ki’che si sono date per frenare lo sfruttamento del territorio da parte di diverse imprese multinazionali.
Lolita ha ottenuto la protezione della Commissione Interamericana dei diritti umani e attualmente vive in Europa, dove continua il suo incessante lavoro di portavoce che negli ultimi mesi l’ha portata in diverse città italiane per condividere le ragioni del conflitto che coinvolge il suo popolo e tessere relazioni con altre comunità in lotta.
L’abbiamo incontrata a Milano, in una delle tappe del suo viaggio in Italia, e colto l’occasione per porle alcune domande sulla situazione del Guatemala alla vigilia delle elezioni e le sfide che devono affrontare le popolazioni originarie per difendere le loro comunità.
Come intervengono le multinazionali nei territori del popolo Ki’che?
Le multinazionali, le imprese che estraggono materie prime sono arrivate in Guatemala attraverso accordi bilaterali con lo Stato e contrattati internazionali, come il Trattato di Libero Commercio, che impongono il diritto economico delle multinazionali sulla legislazione nazionale. Una delle maggiori imprese idroelettriche presenti in Guatemala è Enel. Un’impresa molto violenta, per questo diciamo che Enel ha le mani sporche di sangue. Enel ha generato molta violenza nei nostri territori ed è riuscita a dividere le comunità alimentando un clima di odio contro chi difende i nostri territori. La conseguenza è che si permette qualsiasi tipo di violenza contro i popoli originari. In Guatemala ci sono stati più di 36 anni di guerra e i massacri che vennero commessi si verificano di nuovo.
Se nelle nostre comunità non lasciamo entrare le imprese arriva la repressione, scatta il coprifuoco o lo stato d’assedio e si vive con la presenza dei distaccamenti militari. I giovani vengono arruolati dai militari o da organizzazioni criminali, come le pandillas o le maras, che vengono utilizzate per reprimere.
Qual è il ruolo della cosmovisione del popolo Maya Ki’che nella lotta che portate avanti?
La cosmovisione Maya Ki’che è anti-neoliberale, anti-capitalista, anti-razzista e anti-patriarcale. Come ci hanno insegnato gli antenati, parliamo di cosmoscimiento: la conoscenza è legata alla vita, non solo quella umana ma quella dell’universo. Non c’è nessuna esistenza che valga più di un’altra, il micro si relaziona con il macro, ogni elemento è legato a tutti gli altri. Quando parliamo di territorio, per esempio, noi non difendiamo la madre terra solo in quanto tale, ma anche per la sua storia. La mia cosmovisione è vincolata con la storia, la memoria, il sangue e il ventre, che si intrecciano tra il presente, il passato e il futuro. È una cosmovisione molto profonda, che però non è compatibile con i modelli di sviluppo che dominano il mondo, come il modello capitalista, perché per noi le relazioni non si basano sul denaro ma sulla vita, nel senso che ciascuno esiste in quanto vive, non in base a quanto denaro ha.
Nei tuoi incontri pubblici parli di femminismo comunitario: cosa significa comunitario accanto alla parola femminismo?
Crediamo che ci sia bisogno di lottare contro il patriarcato, perché abbiamo vissuto la violenza e la tortura applicate ai popoli originari e anche ai nostri corpi, quindi diciamo che il nostro corpo è il nostro primo territorio da difendere. Però, allo stesso tempo, non possiamo rimanere ancorate solamente al corpo o all’individualismo e non possiamo rimanere zitte davanti all’avanzare del modello estrattivista. Perché in quel caso sarebbe un tradimento a un popolo millenario che durante la sua storia ha sempre lottato per l’esistenza di tutti gli esseri viventi. È molto importante lottare contro le multiple oppressioni. Per esempio, i femminismi separatisti generano molte divisioni e molta debolezza nei territori, dove noi invece dobbiamo generare la forza collettiva che si costruisce necessariamente in comunità. E la comunità si costruisce con la partecipazione dei bambini, delle bambine, degli uomini, delle donne, degli anziani e delle anziane.
Perché è importante un lavoro di portavoce internazionale come il tuo? A chi si rivolge?
Perché ci uniamo? Perché riconosciamo che le imprese che estraggono materie prime sono le stesse in tutto il mondo. Mi sono indignata quando ho visitato imprese produttrici di acciaio o di armi, che stanno generando molte malattie e costringono le persone ad andarsene. E questo succede proprio qua in Italia. Mi hanno raccontato di un quartiere di Taranto dove ogni quattro bambini che nascono uno muore: questo significa che viene ucciso e le donne stanno prendendo la decisione di non avere più figli per colpa dei veleni delle imprese.
A partire da questo ci uniamo ad altre popolazioni. Con ogni popolazione che lotta per la difesa della madre terra e per una vita degna, noi ci uniamo. Per qualche ragione noi popoli camminiamo, gli uomini, le donne, i bambini e le bambine, siamo in movimento. È una menzogna dire che un popolo è statico, che non cammina. Se l’Europa non riconosce che ha camminato, ignora la sua storia e tradisce il suo sangue e la sua memoria. Noi, come popoli, stiamo sempre camminando uno accanto all’altro.
* Fonte: Gianpaolo Contestabile, Susanna De Guio, IL MANIFESTO[1]
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