Crisi di governo. Perché quest’Europa non farebbe la guerra a Salvini

Crisi di governo. Perché quest’Europa non farebbe la guerra a Salvini

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Vi è sempre un aspetto umorale, un elemento di presunzione individuale nelle scelte politiche più marcate. Nonché un azzardo, una percezione favorevole delle prospettive future. Vi sono poi i contesti che, in cerchi concentrici, vanno da quello più stretto, il proprio partito, a quello successivo, il quadro politico nazionale, a quelli via via crescenti della dimensione continentale e infine planetaria. Raramente lo sguardo dei nostri politici si spinge oltre il secondo, se non per giustificare la propria impotenza, sottrarsi alle proprie responsabilità o esercitarsi in un vittimismo retorico al servizio della propaganda.

PROVIAMO A ESAMINARE IL CONTESTO europeo nel quale il caudillo leghista ha deciso di staccare la spina al governo gialloverde italiano. Non vi è dubbio che abbiamo assistito a una crescita piuttosto generalizzata delle destre più radicali. E a un logoramento consistente dei grandi partiti tradizionali di massa. Ma non a un rovesciamento dei rapporti di forze all’interno dell’Unione europea. E neanche a una cooperazione più che ideologica tra le formazioni nazionaliste europee, per loro natura reciprocamente ostili sulle scelte concrete, che si tratti di economia o di immigrazione.

La Lega si trova dunque ad agire in un’Europa ancora in mano ai Popolari, ma sostanzialmente nei guai, alle prese con la Brexit, con il conflitto aperto sul fronte orientale dove prosperano le “democrazie illiberali”, con la guerra dei dazi e prospettive economiche tutt’altro che confortanti. Dunque non nelle condizioni migliori per avventurarsi in un conflitto aspro con l’Italia. Ma neanche incline ad avallare scelte e tollerare derive politiche che potrebbero suonare come un via libera ai nazionalismi che covano un po’ ovunque nel Vecchio continente.

I GRANDI PARTITI DEL CENTRO, da un lato si propongono come imprescindibile argine democratico contro l’avanzare dell’onda nera, dall’altro non vogliono rinunciare interamente a incassare gli umori autoritari e i riflessi d’ordine che circolano nell’opinione pubblica, per non parlare dell’eventualità di poter ricorrere al sostegno della destra radicale.

E’ esemplare di questa contraddizione il fatto che alcuni esponenti della tedesca Cdu, soprattutto a est (dove sono imminenti le elezioni in Brandeburgo, Sassonia e Turingia), ritengano praticabile una trattativa politica con l’ultradestra di Alternative fuer Deutschland, mentre la linea ufficiale del partito è “nemmeno una chiacchiera al Bar”. O che i Popolari spagnoli non disdegnino di appoggiarsi ai redivivi franchisti di Vox.

Insomma, se l’Unione europea non renderà la vita facile a un eventuale governo leghista in Italia, non c’è neanche da aspettarsi una guerra senza quartiere come quella mossa alla Grecia di Tsipras. Se Matteo Salvini conta su questo non sbaglia. Come, visto l’alto grado di tolleranza mostrato dalla Ue nei confronti delle ex democrazie popolari dell’est e della loro interpretazione restrittiva della democrazia, non c’è da sopravvalutare l’impegno di Bruxelles contro involuzioni autoritarie più o meno mascherate.

A MENO CHE, NEL CONTESTO EUROPEO, le voci democratiche (comprese le componenti meno conservatrici dei Popolari) decidano di dare seriamente battaglia. Non solo sui “valori” e le forme democratiche, ma anche adottando politiche economiche che arrestino il declino dei livelli di vita e delle aspettative di gran parte dei cittadini europei. Quelli che si sono aggrumati attorno alla Lega, al Front National, alla Afd, non sono ancora veri e propri “blocchi sociali”, ma confluenze esposte alla contingenza: puntare a scomporne l’interclassismo, tanto più sbilanciato a favore dei ricchi (meno tassazione diretta, più tassazione indiretta) quanto minori sono le risorse lasciate a disposizione dalla rendita finanziaria, non è impresa impossibile. Spiegare con semplicità che la sicurezza non è repressione (unico vero contenuto delle leggi gialloverdi) e che è assai più probabile crepare in un pronto soccorso sovraffollato o travolto dalla frana di un territorio abbandonato a sé stesso che non accoltellato da un feroce Saladino trasportato dalle Ong, è un facile esercizio di buon senso. Ma assai poco praticato anche a sinistra dove le versioni equivoche della sicurezza non sono certo mancate.

Ed è proprio il naufragio europeo delle sinistre a completare il contesto della crisi di governo. Dell’incapacità della sinistra di trarre qualche insegnamento dalla storia, sua e altrui, la stucchevole predica del fondatore del Partito democratico su la Repubblica di domenica scorsa offre un esempio di rara chiarezza.

SECONDO VELTRONI “PER DECENNI il mondo è cresciuto in ricchezza e libertà accettando l’alternanza tra due modelli”: da una parte Reagan, Thatcher, Bush, i “democratici liberali”, dall’altra la “sinistra progressista” (ben instradata tra i paletti della dottrina neoliberale). A parte le guerre devastanti, l’intossicazione del sistema economico-finanziario e la catastrofe ambientale prodotte da questa felice alternanza di “democratici” di destra e di sinistra di certo la ricchezza di pochi è cresciuta a dismisura rispetto alla povertà dei più, portandone all’esasperazione frustrazioni e risentimenti. Mentre la socialdemocrazia (la Spd in Germania annaspa tra l’11 e il 14 per cento, in Francia è sparita, quasi ovunque si è resa irriconoscibile) scavava sistematicamente la sua fossa.

Da questi meravigliosi decenni “democratici” nazionalismi e postfascismi hanno tratto il loro alimento. Trovandovi immancabilmente spunti e strumenti a cui riagganciarsi, stati d’animo disponibili a consegnarsi nelle mani di qualche improvvisato “salvatore della patria”. Da dove, altrimenti, provengono le pulsioni autoritarie, l’odio per lo straniero, l’insofferenza per le istituzioni democratiche? E con quale coraggio si fronteggia l’avanzata della destra radicale rivendicando le presunte virtù di un simile passato?

* Fonte: Marco Bascetta, IL MANIFESTO



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