Crisi di governo. Alla fine Beppe Grillo parlò: «No al voto, no ai barbari»

by Giuliano Santoro * | 11 Agosto 2019 9:31

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Al terzo giorno della crisi della maggioranza gialloverde, l’Elevato invia un messaggio. Beppe Grillo scrive un testo che vorrebbe apparire come un messaggio cifrato ma che risulta una sequenza di allegorie e immagini che potrebbero significare qualsiasi cosa. Però il garante del Movimento 5 Stelle dice che non bisogna confondere «coerenza con rigidità».

Lui ha sempre parlato di un M5S «biodegradabile», cioè nato per estinguersi senza lasciare resti inquinanti. Ma, precisa, «questo non significa che siamo dei kamikaze». Alcuni esegeti insinuano che sia l’ok al superamento del tetto del doppio mandato. Infine, ed ecco la notizia principale, sostiene che bisogna fare dei «cambiamenti». «Facciamoli subito, altro che elezioni!», dice Grillo.

DI FRONTE AD UN’ESORTAZIONE del genere, bisogna non valutare lo scenario che tutti definiscono impossibile: un accordo tra M5S e Pd. La proposta potrebbe addirittura venire fuori alla plenaria di lunedì prossimo degli eletti 5 Stelle: un governo «con chi ci sta» per fermare il blietzkrieg elettorale della Lega e farla pagare a Salvini.

Alle origini di questa legislatura, quando il segretario dimissionario Renzi tolse le castagne dal fuoco a Di Maio proclamando l’indisponibilità dei suoi a ogni alleanza. Di Maio, come è noto, preferiva andare al governo con Matteo Salvini, perché questa della alleanza con la Lega era una vecchia fissazione di Gianroberto Casaleggio, perché con la Lega sembravano esserci maggiori affinità in termini di attitudine e di linguaggio più che di programma (come hanno confermato gli eventi successivi) e perché oggettivamente sarebbe stato difficile costruire una maggioranza con il Pd, la forza politica che da sempre è considerata dai grillini il nemico principale.

RENZI SI TIRÒ FUORI con un Pd impossibilitato a prendere le decisioni ardite dalla fase politica, decise di mangiare pop corn e i vertici grillini poterono dire ai loro eletti più perplessi che la strada del contratto di governo gialloverde era obbligata. «Io non volevo fare l’accordo con la Lega – ha detto ancora ieri Nicola Morra, riproponendo questa narrazione – Ma ho dovuto accettarlo perché un’altra forza politica a cui avevamo proposto un accordo ci ha preso per i fondelli».

È un po’ quello che accadde in Europa, piccolo laboratorio del grillismo, quando i vertici imposero un accordo con la destra di Nigel Farage contro la volontà di buona parte dei grillini eletti. E se davvero quello che accade a Bruxelles anticipa quello che succede in patria, non bisogna dimenticare che i 5 Stelle in quella sede prima tentarono, rocambolescamente, di passare con i liberali dell’Alde.

POI SONO FINITI in maggioranza con popolari e socialisti, seppure in forma esplorativa e senza un gruppo di appartenenza. Non è un caso che i parlamentari europei, in cerca di un approdo moderato che pare consono a molti eletti grillini, siano stati tra i primi ad apparire tutt’altro che delusi di fronte alla rottura con la Lega.

Dunque, il canale di dialogo col Pd si apre concretamente per la prima volta? Il segretario Zingaretti, da presidente della regione Lazio ha goduto di un appoggio tattico e mai eccessivamente propagandato dei consiglieri grillini capitanati da Roberta Lombardi. La stessa Lombardi in queste ore è tra le poche esponenti del M5S ad esultare per la caduta del governo: «Mi sono liberata di un peso», ha detto l’altro giorno. Accusato di connivenza col nemico quando non di subalternità al grillismo, Zingaretti ha sempre escluso ogni alleanza col M5S; il leader Pd però intende, e qualche volta ha spiegato questo passaggio, che ad essere impraticabile è il M5S retto da Di Maio. Venerdì scorso è successo un fatto nuovo.

I VERTICI GRILLINI convocati da Di Maio e Casaleggio (i capigruppo, esponenti di punta come Paola Taverna e Nicola Morra e frontman come Alessandro Di Battista) hanno sancito una specie di direzione collegiale, con l’impegno collettivo che nessuno screditerà Di Maio o lo criticherà in pubblico. È difficile che basti per aprire all’accordo, perché il compromesso raggiunto riguarda proprio la necessità di tornare alle origini, di coniugare il volto moderato e istituzionale di Giuseppe Conte con quello barricadero di un Di Battista. A patto che le parole di Grillo e la variabile impazzita della riunione dei parlamentari, ai quali dovrebbe essere assicurata la ricandidatura in blocco come deterrente allo sfaldamento nella palude, non impongano cambi di strategia. Uno scenario che segnerebbe l’azzeramento di tutti i pregressi, il rimescolamento pressoché totale dei fattori in campo.

* Fonte: Giuliano Santoro, IL MANIFESTO[1]

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