Colombia, una parte delle FARC annuncia: «Siamo costretti a riprendere le armi»

by Claudia Fanti * | 30 Agosto 2019 10:00

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Che la dissidenza delle Farc avesse deciso di riprendere la lotta armata era già noto da tempo, ma ora è arrivata anche la conferma ufficiale: «Annunciamo al mondo che è iniziata una nuova Marquetalia (il luogo di nascita delle Farc, ndr) nell’ottica del diritto universale che garantisce a tutti i popoli del mondo di sollevarsi in armi contro l’oppressione», ha dichiarato in un video diffuso ieri l’ex numero due dell’organizzazione guerrigliera Iván Márquez, il quale aveva fatto perdere le sue tracce da più di un anno, rientrando in clandestinità.

Accanto a lui, un’altra ventina di leader armati, tra cui si distinguono Hernán Darío Velásquez, “El paisa” e Jesús Santrich, il leader non vedente che era stato arrestato nell’aprile del 2018 con l’accusa di aver partecipato a un traffico di cocaina (ritenuta dai più una montatura), rimesso in libertà il 30 maggio scorso dopo un lungo braccio di ferro istituzionale e, dopo aver persino occupato il suo seggio al Congresso ribadendo il proprio impegno per la pace, scomparso nel nulla il 30 giugno.

«NON SIAMO MAI STATI VINTI o sconfitti ideologicamente. Per questo la lotta continua. La storia scriverà nelle sue pagine che siamo stati obbligati a riprendere le armi», ha aggiunto Márquez, che è stato, paradossalmente, il principale negoziatore degli accordi di pace tra governo e guerriglia firmati nel 2016 a Cuba.

Di sicuro, con l’annuncio di ieri, diffuso dalla zona del fiume Inírida, nella regione amazzonica, una nuova scure si abbatte sul già minacciatissimo processo di pace, riducendo sempre più al lumicino la speranza, a cui tanti si erano aggrappati, che con la firma dell’accordo tutto potesse prendere una direzione nuova nella storia della Colombia.

Tre anni dopo, di quella speranza non rimane quasi più traccia, soffocata dalla mancata applicazione dell’accordo e dal massacro sistematico di leader sociali e membri dell’ex guerriglia. Finché persino l’unica conquista che sembrava certa – quella della fine delle ostilità – non è stata di nuovo, e ora definitivamente, messa in discussione.

LE AVVISAGLIE, del resto, non erano mancate, a cominciare dalla ripetuta autocritica di Iván Márquez rispetto al «grave errore» di «aver consegnato le armi a uno stato traditore confidando nella sua buona fede». Dichiarazioni che avevano evidenziato un’insanabile spaccatura all’interno del nuovo partito Farc (Fuerza alternativa revolucionaria del común), il cui leader, Rodrigo Londoño (Timochenko), aveva risposto a muso duro, accusando Márquez di compromettere «l’autorità morale» del partito e rinfacciandogli di aver rinunciato al suo seggio in parlamento nel momento in cui ce n’era più necessità: «Non possiamo rischiare di perdere quanto ottenuto fino a oggi, per quanto complesso sia il compito che ci sta di fronte».

E, ora, a spaccatura ormai consumata, a Londoño non resta che ricordare come «le grandi maggioranze» continuino a impegnarsi a favore dell’accordo «malgrado ostacoli e difficoltà», perché, ha detto, «siamo convinti che il cammino di pace sia quello giusto».

HA COMMENTATO L’ANNUNCIO di ieri anche il guerrafondaio per eccellenza, l’ex presidente Álvaro Uribe, il cui partito, il Centro democratico del presidente Duque, si era riproposto in campagna elettorale di «fare a pezzi» l’accordo, per poi “limitarsi” a disattenderlo totalmente nella pratica: «Il paese deve essere cosciente che un processo di pace non c’è stato: si è avuto solo un indulto per alcuni responsabili di delitti atroci a un alto costo istituzionale», ha scritto su Twitter l’ex presidente, da sempre convinto che la pace dovesse nascere dall’annientamento militare delle Farc.

Ed è la sua linea, in fondo, ad apparire vincente. Con l’unica differenza che la ex guerriglia, sopravvissuta a più di 50 anni di conflitto armato, l’annientamento lo sta rischiando in quelli che dovrebbero essere tempi di pace: dalla firma dell’accordo tra le Farc e il governo, sono circa 130 gli ex combattenti assassinati.

Né va meglio ai leader sociali e ai difensori dei diritti umani: oltre 700 quelli caduti dal 2016, tra cui circa 160 dirigenti indigeni, più di 90 dei quali uccisi a partire dall’avvento al potere di Iván Duque.

* Fonte: Claudia Fanti, IL MANIFESTO[1]

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  1. IL MANIFESTO: https://ilmanifesto.it/

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