Trump minaccia: «Potrei far sparire l’Afghanistan dalla faccia della terra in 10 giorni»

Trump minaccia: «Potrei far sparire l’Afghanistan dalla faccia della terra in 10 giorni»

Loading

«Se avessimo voluto combattere una guerra in Afghanistan e vincerla, avrei potuto farlo in una settimana». E ancora: «L’Afghanistan sarebbe sparito dalla faccia della terra, letteralmente, in dieci giorni».

NELLO STUDIO OVALE della Casa Bianca, lunedì il presidente degli Stati uniti Donald Trump in pochi minuti è riuscito a indossare diverse maschere del potere. Quella bellicosa e minacciosa, innanzitutto: «Se avessimo voluto agire da soldati, sarebbe finita in 10 giorni»; poi, contrapposta alla prima, quella caritatevole: «Lì agiamo da poliziotti, non da soldati, perché non voglio uccidere 10 milioni di persone, è scorretto in termini umanitari».

Infine quella diplomatica: «Stiamo facendo bene», ha detto Trump riferendosi al negoziato in corso tra i Talebani e il suo inviato, Zalmay Khalilzad, e riconoscendo il contributo del Pakistan. Accanto a lui sedeva infatti il primo ministro del Paese dei puri, Imran Khan, che ha fatto sua la linea dell’amministrazione Usa: «Sono tra quelli che crede che non ci sia soluzione militare (…), complimenti a Trump per aver spinto affinché la guerra finisca con un accordo. Il Pakistan può giocare un ruolo molto importante».

UN SIPARIETTO INEDITO, diverso da quello a cui i due ci hanno abituato. Nell’agosto 2017, presentando la nuova dottrina asiatica, Trump aveva accusato il Pakistan di ricevere finanziamenti americani senza combattere il terrorismo. Nei mesi successivi aveva rincarato la dose via Twitter, denunciando Islamabad come «uno dei tanti Paesi che ricevono dagli Stati uniti senza dare niente in cambio», se non «imbrogli e bugie». Imran Khan aveva respinto le «dichiarazioni false di Trump» come «un insulto» alle tante sofferenze del Pakistan per il coinvolgimento nella guerra al terrore, ricordando le «75,000 vittime e le perdite economiche per oltre 123 miliardi di dollari». Un tasto su cui è tornato anche lunedì alla Casa Bianca.

Imran Khan sa bene che Trump ha le mani legate: se vuole salvare la faccia in Afghanistan, portando a casa un accordo di pace, Islamabad è indispensabile. Ora che il negoziato con i barbuti è in corso, anche grazie alle pressioni di Islamabad sui Talebani, Imran Khan va a Washington a battere cassa. Il suo obiettivo è spingere Trump a sbloccare quel miliardo e passa di dollari che l’americano ha congelato nel gennaio 2018. Per ora ottiene riconoscimenti e pacche sulle spalle, non ancora i danari che chiede. Ma ha già fatto storcere il naso agli afghani.

VISTO DA KABUL, il siparietto dello Studio ovale è preoccupante. Perché ad arrogarsi il diritto di decidere le sorti di un Paese da 35 milioni di abitanti ci sono da una parte Imran Khan, il primo ministro di uno Stato considerato ostile, il cui establishment militare coltiva rapporti con i Talebani, dall’altra Trump, il quale dice di volere la pace ma allude a un genocidio. Le loro parole, in particolare quelle di Trump, hanno scatenato un putiferio a Kabul. Tanto da spingere l’Arg, il palazzo presidenziale, a emanare una nota in cui, pur ribadendo la partnership con Washington, il presidente Ashraf Ghani ricorda l’antica e gloriosa storia del Paese e sottolinea che «la nazione afghana non ha permesso e mai permetterà a nessuna potenza straniera di determinare il proprio destino».

È VERO SOLO IN PARTE. Tanto più ora: lo stipendio dei soldati, gran parte dell’economia del Paese, lo stesso governo di unità nazionale (voluto dal segretario di Stato John Kerry nel settembre 2014) si reggono soltanto grazie al sostegno Usa. Oggi, soltanto grazie a quel Trump che sostiene di poter «spazzar via l’Afghanistan dalla terra in dieci giorni».

* Fonte: Giuliano Battiston, IL MANIFESTO



Related Articles

Un carcere chiamato Honduras

Loading

Lo scorso 14 febbraio è andato a fuoco il penitenziario di Comayagua, con 355 detenuti morti bruciati. La terza volta in meno di un decennio che spaventosi incendi hanno ucciso centinaia di prigionieri, molti dei quali senza una condanna o solo per avere sul corpo i tatuaggi delle maras.

Tek, l’«esercito» del capo dai poteri illimitati

Loading

Ungheria. L’unità  antiterrorismo, dipende dal governo e opera senza mandati giudiziari 

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment