Nel gioco del cerino tra Salvini e Di Maio incombe il regionalismo differenziato

Nel gioco del cerino tra Salvini e Di Maio incombe il regionalismo differenziato

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Nel gioco del cerino a chi fa cadere un governo politicamente azzoppato il nuovo incontro di oggi a palazzo Chigi sull’autonomia differenziata potrebbe essere la causa dell’incendio definitivo. In un’atmosfera da notte dei lunghi coltelli Lega e Cinque Stelle potrebbero trovare nella scuola – uno dei punti più controversi di una riforma indigesta almeno per la parte grillina di un esecutivo bifronte con sede anche al Viminale – il minimo comune denominatore per bruciare i ponti alle spalle e avviare la crisi che già ora soffoca il paese. Con reciproca soddisfazione, visto che i contendenti pensano entrambi di avere ragione: i Cinque Stelle hanno richiamato una serie di sentenze della Corte costituzionale secondo le quali i docenti non possono dipendere dalle regioni, ma dal ministero dell’Istruzione. C’è poi la proposta leghista dei salari differenziati in base alla residenza contro la quale i pentastellati hanno fatto muro, parlando di «gabbie salariali». In generale, la ministra per il sud Lezzi (M5S) ha ribadito l’esigenza di un fondo di perequazione. Una proposta a cui si sono opposti i governatori di Veneto e Lombardia, Luca Zaia e Attilio Fontana, pivot secessionisti della Lega. I contendenti avrebbero in realtà trovato un accordo su questo fondo che dirotterebbe l’extragettito delle regioni più ricche verso quelle dotate di capacità fiscale inferiore. Impegno che sarebbe venuto meno nel corso delle ultime due settimane, le più turbolente della breve vita del governo.

Dopo una giornata convulsa ieri il presidente del consiglio Conte ha tenuto una serie di riunioni preparatorie per sciogliere i nodi sul tavolo in vista del vertice di oggi. Ha incontrato la pattuglia salvinista ministeriale, Erika Stefani e Marco Bussetti. E ha tenuto una riunione con i tecnici del ministero dell’economia. Conte sostiene di volersi muovere nel rispetto del dettato costituzionale, un orientamento sufficientemente vago per contrastare la Lega che di questo dettato fornisce una versione sartoriale. Che la Lega, in fondo, non attribuisca molta importanza al vertice lo si è capito già ieri quando Salvini ha reso noto che non sarà presente, né al consiglio dei ministri. «Per altri impegni». Giustificazione che non giustifica nulla, considerato il fatto che all’autonomia lo stesso ministro tutto-fare, aspirante premier in pectore, ha attribuito un valore di vita o di morte per l’esecutivo: «Se ci dovessimo rendere conto che non si riesce a lavorare perché l’autonomia è ferma, le infrastrutture ferme … O le cose si fanno o non mio costringe il medico a stare qui a fare il ministro». Certo aiuterebbe seguire il paziente nel suo decorso, verso l’esito fatale, partecipando alla riunione di oggi. Per rendersi conto della situazione, il medico non manda i suoi assistenti. Verifica di persona e comunica il verdetto. Come farà Di Maio che ha annunciato la partecipazione all’incontro. Se Conte non riuscisse a riportare un equilibrio tra i tiratori della fune, Salvini potrebbe dire che i suoi alleati-nemici sono i responsabili della crisi. E, viceversa, lo stesso potrebbero dire i Cinque Stelle. A poche ore da un vertice che potrebbe anche concludersi con un altro rinvio, tra segnali di fumate nere e nervosismi di ogni tipo, la dichiarazione che traduce lo spirito del momento è stata quella della ministra agli affari regionali Erika Stefani: «Se si vuole creare un minestrone dove tutti parlano di tutto tanto vale parlare di autonomia al bar invece che ad un vertice».

* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO



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