Guerra in Afghanistan, accordo più vicino tra talebani e americani

Guerra in Afghanistan, accordo più vicino tra talebani e americani

Loading

«Ma il diavolo è nei dettagli», avverte Zalmay Khalilzad il mediatore afghano-americano

Seduti al tavolo negoziale dal 29 giugno, talebani e americani si sono presi una pausa di due giorni, domenica e lunedì. È servita a far incontrare la delegazione degli «studenti coranici» con alcuni rappresentanti della società afghana e del governo, questi ultimi invitati a titolo personale. Si tratta della conferenza «intra-afghana» per la pace, promossa da Germania e Qatar, parte del più ampio sforzo diplomatico per ottenere per via negoziale quel che è impossibile ottenere militarmente: la pace in Afghanistan.

Entrambi gli incontri si svolgono a Doha, in Qatar, ma hanno valore diverso. Quello di ieri e di domenica è un semplice dialogo, preliminare a un negoziato vero e proprio. Eppure rimane importante, perché per la prima volta rappresentanti di alto livello dei barbuti (alcuni con alle spalle anni e anni di prigione a Guantanamo) si sono incontrati con alti rappresentanti del governo. Non era scontato, perché per i talebani il governo di Kabul è illegittimo, semplice protesi degli Stati Uniti. Si tratta di un punto a favore di Zalmay Khalilzad, l’uomo a cui il presidente Trump ha affidato il compito di portare a casa un accordo di pace.

NEL CORSO DEGLI INCONTRI svolti finora con i barbuti – che hanno valore di vero e proprio negoziato e non di semplice dialogo -, Khalilzad ha incassato un accordo di massima su una bozza in 4 punti: ritiro delle truppe americane in cambio della garanzia dei talebani di tenere il Paese fuori dal giogo dei terroristi a vocazione globale; e poi un cessate il fuoco e l’inizio di un vero negoziato con il governo afghano. Prima messa all’angolo, Kabul sembra in parte essere rientrata nella partita, grazie alle recenti garanzie di Washington e all’insistenza con cui Khalilzad – l’afghano-americano accusato da una parte dell’establishment politico di Kabul di aver mire personali – sostiene che l’accordo è un pacchetto «tutto completo»: o si firmano i 4 punti, o non si firma niente. Dall’ultimo round di negoziati del 29 giugno, interrotto per 2 giorni e ricominciato proprio oggi, martedì, Khalilzad vuole ottenere altre concessioni, se non la firma dell’accordo vero e proprio. Nelle interviste ai media si è detto molto soddisfatto, ma ripete che «il diavolo è nei dettagli», che vanno meglio definiti.

L’amministrazione Trump ha fretta di concludere. A fine giugno a Kabul è arrivato il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che ha dichiarato due cose importanti: la prima è che gli americani sono davvero disposti a ritirare le truppe (ma nulla ha detto sull’uso delle basi militari, questione che entrerà nell’accordo, anche se probabilmente nelle parti secretate), la seconda è che gli Stati Uniti ambiscono a chiudere la questione entro l’1 settembre. Un azzardo, secondo l’orologio che scandisce i tempi negoziali, in genere molto lunghi. Ma necessario a Trump per sbandierare nella campagna elettorale per il secondo mandato di aver archiviato il dossier Afghanistan.

LA FRETTA DIPLOMATICA non equivale a quella sul campo: una delle questioni più controverse riguarda proprio i tempi del ritiro. I talebani chiedono tempi brevi, gli americani puntano a un disimpegno più graduale. Per i barbuti, il negoziato vero e proprio con il governo di Kabul potrà cominciare soltanto quando l’agenda del ritiro sarà definita. Per Khalilzad, l’inizio del negoziato con Kabul è un prerequisito per la definizione dei tempi del ritiro. Eppure sembra che le posizioni si stiano avvicinando. Che poi la firma arrivi davvero, è ancora incerto. Quel che succederà poi è una grande incognita. Bravi a chiarire cosa non vogliono – l’occupazione, un governo contrario alle tradizioni afghane e al «loro» Islam – i talebani, al di là delle assicurazioni di principio, non sanno definire che tipo di architettura politico-istituzionale sono disposti ad accettare.

IL GOVERNO guidato da Ashraf Ghani, che punta alla rielezione alle presidenziali del 28 settembre, è debole e diviso. E la società guarda ai negoziati in corso con un misto di speranza – per la fine della carneficina – e di sospetto – per un accordo tra attori ritenuti scarsamente credibili e legittimi, e gravido di rischi. Eppure rimane «l’unica possibilità per far tacere le armi», sostengono alcuni delegati dell’incontro di Doha.

* Fonte: Giuliano Battiston, IL MANIFESTO



Related Articles

Israele: «Cella d’isolamento»

Loading

Marwan Barghouti (nella foto reuters) ha pagato a caro prezzo la lettera inviata la scorsa settimana ai suoi sostenitori a Ramallah, e a tutti i palestinesi, nella quale incitava alla «resistenza popolare» contro l’occupazione e a «interrompere immediatamente tutte le forme di cooperazione economica e in materia di sicurezza con Israele».

Razzi libanesi su Israele dopo il raid alla Spianata, la guerra si avvicina

Loading

In risposta alla violenza della polizia israeliana a Gerusalemme ieri sono stati lanciati 34 razzi dal Libano meridionale, quasi tutti intercettati. Netanyahu ieri sera preparava una dura risposta militare, anche contro Gaza

Atene, il declino di Varoufakis «Va processato per alto tradimento»

Loading

Dopo gli audio sul piano per uscire dall’euro, un giudice chiede la revoca dell’immunità

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment