Colombia senza pace, tre anni dopo: «Dal 2016 uccisi 550 leader sociali»
Con la firma nel 2016 dell’accordo di pace tra il governo e le Farc, tutto sarebbe potuto cambiare nella storia della Colombia. Benché fossero risultate subito chiare le contraddizioni legate al processo, la speranza di una pace non funzionale agli interessi dei dominatori di sempre era comunque molto profonda.
Tre anni dopo quella speranza è ridotta al lumicino, soffocata dalla mancata applicazione dell’accordo e dal massacro sistematico di leader sociali e membri dell’ex guerriglia (il 9 luglio ne sono stati uccisi altri due). Persino l’unica conquista che sembrava certa – la fine delle ostilità – appare di nuovo messa in discussione, di fronte alla decisione disperata di tanti ex combattenti traditi dal governo di ritornare in clandestinità.
Che sia stata proprio questa la scelta di Jesús Santrich – arrestato ad aprile 2018 con l’accusa di aver partecipato a un’operazione di traffico di cocaina e rimesso in libertà il 30 maggio scorso – se lo stanno chiedendo tutti in Colombia. Il leader delle Farc, che l’11 giugno aveva occupato il suo seggio al Congresso riaffermando il suo impegno per la pace, ha fatto perdere le sue tracce il 30 giugno, non presentandosi neppure all’udienza del 9 luglio alla Corte suprema (da cui era stato convocato per rispondere dell’accusa di narcotraffico).
Di tutto ciò abbiamo parlato con il gesuita Javier Giraldo, del Centro de Investigación y Educación Popular, impegnato da più di 30 anni nella difesa dei diritti umani nel paese.
Come sta reagendo il governo di Iván Duque allo sterminio in atto contro leader sociali ed ex combattenti?
Non adotta alcuna misura e non mostra alcun interesse. Dalla firma dell’accordo di pace nel 2016, sono stati assassinati secondo i nostri calcoli circa 550 leader sociali e 150 ex combattenti delle Farc. E malgrado le proteste delle organizzazioni popolari, gli omicidi proseguono incessantemente. Ogni settimana si registrano nuovi casi.
Non è vero che il paramilitarismo è stato smantellato.
Nella prima tappa del conflitto che prende il via in Colombia negli anni ’60, erano direttamente i militari, con il viso scoperto, alla luce del giorno senza timore di punizioni, ad applicare ogni forma di repressione, tortura e assassinio. Era questa la politica ufficiale dello Stato. È negli anni ’80, quando le denunce della comunità internazionale cominciano a farsi sentire, che entrano in scena i paramilitari, dalle Águilas Negras al Clan del Golfo, presentandosi con un’identità collettiva al di fuori dello Stato. E agiscono indisturbati fino all’inizio del nuovo millennio, quando il governo avvia una campagna diretta a cancellare lo stesso termine «paramilitari», nel tentativo di convincere la società che tali gruppi non siano in alcun modo legati ai militari, né allo Stato, né alle imprese, ma che si tratti solo di delinquenza comune, di bande criminali.
La situazione non è migliorata con la firma dell’accordo di pace.
Dalla firma dell’accordo nel 2016, gli autori degli assassinii si muovono in un anonimato totale: si nascondono dietro un cappuccio, arrivano in motocicletta senza targa, sparano e si allontanano e non scrivono neppure un documento di rivendicazione. Nessuno li può vedere, nessuno li può identificare e nessuno sa perché hanno ucciso. Solo quando iniziano le indagini si scopre che le vittime svolgevano tutte un’attività contraria agli interessi del governo, denunciando la condotta di una multinazionale o di un’impresa mineraria, rivendicando la terra che era stata loro tolta o organizzando la gente.
Si sta ripetendo in altra forma quello che è stato il genocidio politico contro l’Unione patriottica negli anni ’80?
Prima la persecuzione era diretta contro la sinistra politica, come l’Unione patriottica, o contro i sindacati. Oggi è più ampia. La maggior parte delle vittime appartiene all’Acción comunal, un modello di organizzazione di base attivo soprattutto nelle aree rurali, nei piccoli villaggi.
Che ne sarà dell’accordo di pace, soprattutto di fronte al sistematico assassinio di ex combattenti?
In campagna elettorale, il partito di Duque, il Centro democratico, aveva annunciato che avrebbe «fatto a pezzi» l’accordo. Una volta eletto, il presidente ha un po’ moderato i toni, assicurando che sarebbero stati cambiati solo alcuni punti. In realtà, il boicottaggio nei confronti del processo di pace è più di tipo passivo, nel senso che non si sta applicando quanto era stato accordato. Nessuna delle riforme sociali previste, per esempio, è stata portata avanti. Questo ha fatto sì che molti ex combattenti, delusi, abbandonati a se stessi ed esposti al pericolo di perdere la vita, abbiano ripreso la via delle armi, formando quella che viene chiamata la dissidenza delle Farc. E anche alcuni leader dell’ex guerriglia, compreso il negoziatore principale degli accordi, Iván Márquez, sono tornati in clandestinità.
Qual è la sua valutazione del caso Santrich? E come va interpretata la sua scomparsa?
Sono convinto che sia una montatura: le accuse nei suoi confronti, provenienti dalla Dea, non hanno alcun fondamento. Riguardo alla sua scomparsa, la versione di quanti gli erano più vicini è che, mentre si trovava in uno spazio di reinserimento degli ex combattenti nel dipartimento di Cesar, alla frontiera con il Venezuela, l’intelligence bolivariana lo avebbe avvertito di un tentativo di ucciderlo e gli avrebbe consigliato di nascondersi. Alcuni dicono che si trovi già in Venezuela.
C’è speranza per la Colombia?
Credo ci siano piccole finestre di speranza, a partire da quella legata alla crescita dei movimenti di base, dalle organizzazioni indigene a quelle contadine. Per quanto la protesta sia stata sempre molto repressa in Colombia e continui a esserlo, ultimamente il paese ha assistito a una grande quantità di scioperi e manifestazioni. E il prossimo 26 luglio è prevista una marcia nazionale in difesa della pace e contro l’assassinio dei leader sociali.
* Fonte: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO
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