by Giansandro Merli * | 23 Giugno 2019 20:38
ROMA. «Da 30 anni questa città è attraversata da un fenomeno anomalo, che affonda le radici nella resistenza, nei movimenti degli anni ’70, nelle battaglie per la libertà e la giustizia sociale. Un fenomeno che ha ridato dignità alla parola ribellione: i centri sociali». Quando queste parole rimbombano a metà di via dei Fori Imperiali attraverso l’impianto di amplificazione montato sul camion il corteo esplode in un boato. Intorno ci sono diverse generazioni dei cosiddetti «ragazzi dei centri sociali», alcuni hanno ormai i capelli bianchi, altri sono giovanissimi. La coda del corteo non può sentire: è troppo distante. Nonostante l’afa soffocante di un pomeriggio di metà giugno stanno sfilando in 15mila. Un successo.
NELLA MANIFESTAZIONE, però, non ci sono soltanto gli spazi sociali o i movimenti per il diritto all’abitare, che insieme hanno indetto la protesta per mandare un segnale di unità contro i possibili sgomberi estivi. Tra gli spezzoni si scorgono i tanti mondi che con le esperienze di autogestione tessono la trama di una città diversa, solidale, resistente. Una città sotto attacco su più fronti. Da parte del ministero dell’Interno che attraverso la prefettura vorrebbe cancellare dalla mappa 22 esperienze di socialità, cultura, sport popolare e soluzioni abitative. Da parte dell’amministrazione comunale che ieri ha spento la terza candelina senza aver ancora approvato il regolamento sulle concessioni del patrimonio demaniale indisponibile che centinaia di realtà sociali e associative attendono da gennaio 2016. Quando il prefetto Tronca, sulla base della delibera 140 della giunta Marino, ordinò a centinaia di loro di abbandonare gli spazi ricevuti in assegnazione. Da parte dei grandi proprietari immobiliari, sempre smaniosi di affermare il valore assoluto della proprietà privata (anche quella inutilizzata) sul principio costituzionale della sua funzione sociale.
IN PIAZZA sono tanti e diversi. Ci sono i centri antiviolenza e le case delle donne. Hanno portato striscioni, cartelli e i fazzoletti fucsia del movimento Non una di meno. «Anche questi luoghi sono sotto sgombero – afferma Chiara Franceschini, della casa delle donne Lucha y Siesta – Un’esperienza come la nostra, polo culturale, centro di aggregazione politica e casa rifugio per le donne che escono da percorsi di violenza maschile, è un fiore all’occhiello per la città».
CI SONO LE FAMIGLIE che vivono nelle occupazioni abitative, dove i colori della pelle, le lingue e i diversi passaporti si intrecciano per soddisfare il bisogno comune di avere una casa. «Nella lista della prefettura siamo al secondo posto, vorrebbero sgomberarci entro agosto – dice Rosanna dell’occupazione di viale del Caravaggio, dove vivono 250 nuclei familiari – L’edificio è degli Armellini, famiglia nota per le tante proprietà immobiliari tra cui le celebri “case di sabbia” di Ostia». «A viale del Caravaggio vivo con mia moglie e due figli – racconta Hernán, nato in Ecuador ma residente in Italia da 26 anni – Lavora solo lei perché io ho dei gravi problemi di salute. Se ci sgomberano finiamo tutti per strada». «Chiediamo alla sindaca una deroga all’art. 5 della legge Lupi-Renzi per allacciare le utenze nei palazzi occupati, come in tutti gli altri», dice Maurita di Spin Time Labs. Lì a inizio maggio la multiservizi Acea aveva lasciato senza luce 450 persone, fino al riallaccio effettuato dal cardinal Krajewski, elemosiniere del papa.
C’È MEDITERRANEA. «Siamo un progetto di mare che però nasce in terra, proprio negli spazi che vengono dai movimenti studenteschi e dalle lotte sociali – afferma Fabio Gianfrancesco, membro dell’equipaggio della Mare Jonio – Luoghi che servono a riconoscerci tra noi e con le persone che scappano, che non sono solo vittime ma soggetti che si battono per una vita che vada al di là della semplice sopravvivenza». E c’è anche la comunità curda romana. «Ararat, il nostro centro culturale che da 20 anni è attivo a Roma, è in pericolo come gli altri – dice Ramazan – Abbiamo conosciuto i centri sociali quando hanno difeso con noi il presidente Öcalan. Recentemente abbiamo camminato insieme nella lotta contro l’Isis in Siria. Ci hanno sempre sostenuto».
«DA QUI mandiamo un messaggio forte e chiaro al governo – dice Cristiana, del laboratorio occupato e autogestito Acrobax – Siamo tanti. Siamo diversi. Abbiamo storie ed esperienze diverse. Coltiviamo passioni e percorsi politici diversi. Ma davanti a chi propone solamente rabbia, odio, abbandono, sgomberi, speculazioni, rispondiamo con una sola voce, che vuole affermare per questa città e per il paese un presente e un futuro migliore».
* Fonte: Giansandro Merli, IL MANIFESTO[1]
Foto: Roma non si chiude, pagina Facebook
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