Lavoro in carcere. Il prezzo del riscatto
«Viaggio nelle carceri»: così si chiama il programma di visite deciso dai giudici della Corte costituzionale per illustrare ai reclusi principi e lettera della Carta.
Un fatto storico, di grande significato e sollecitazione, coerente e richiamante il giuramento che fecero i padri costituenti, che la detenzione avevano dovuto personalmente patire durante il fascismo: «Mai più un carcere cimitero dei vivi». Una promessa certo sentita e sincera, ma in seguito tradita dalle scelte, o dall’indifferenza, di chi, governando il paese, quella Costituzione è stato chiamato a implementare, nonché da una «ontologica» resistenza del sistema alla sua umanizzazione.
In causa non vi è solo il bistrattato articolo 27.
Per chi vive in prigione, ancor più che per chi gode della libertà ma costretto ai piani bassi della scala sociale, vi è l’incipit del primo articolo che suona beffardo. Per i reclusi ormai dovrebbe anzi essere emendato in questo modo: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, purché gratuito».
Hanno infatti frequenza quasi quotidiana i protocolli di intesa tra istituti penitenziari, enti pubblici o imprese private che prevedono l’impiego di detenuti a titolo di «lavoro volontario e gratuito» in attività di manutenzione di spazi pubblici e di aree verdi, riparazione di strade, raccolta dei rifiuti e così via. I progetti, dal significativo titolo «Mi riscatto per…» seguito di volta in volta dal nome della città, hanno visto come capostipite Roma e si sono rapidamente diffusi.
A quest’affermata tendenza (in verità spesso praticata anche nel mondo libero a danno di giovani e precari sottoposti ai ricatti di stage e promesse di futuri inserimenti) si è aggiunta ora una tappa significativa, perché la importa anche nel regime intramurario.
Il 23 maggio il direttore del carcere di Torino aveva annunciato che Amazon avrebbe aperto laboratori all’interno di due penitenziari, tra cui il suo, ma il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria lo aveva immediatamente smentito. Una settimana dopo si è capito il perché: l’intesa non riguarda il colosso statunitense del commercio elettronico, bensì la e-PRICE (la ex Banzai di Paolo Ainio), società tutta italiana, attiva nello stesso settore. Una scelta, insomma, coerente con lo spirito dei tempi e con la voga sovranista che governa l’Italia, e dunque anche le sue carceri.
Il 30 maggio la e-PRICE (che, per coincidenza e comodità, ha sede a Milano davanti a San Vittore) e il ministero di Giustizia-DAP hanno firmato il protocollo d’Intesa in base al quale la società «potrà impiegare spazi inutilizzati all’interno degli istituti penitenziari per metterli a disposizione della filiera commerciale e logistica di e-PRICE».
Gli spazi, concessi in comodato gratuito, riguardano inizialmente gli istituti di Roma e Torino, dove saranno coinvolti detenuti che potranno fruire «dell’opportunità di una adeguata formazione professionale che domani potrebbe portare a possibilità di assunzione lavorativa o potrà comunque risultare spendibile nel mondo del lavoro».
Tutto ciò per lo «sviluppo della cultura della restituzione, intesa come riparazione indiretta dei danni provocati dai reati».
La parola chiave è «domani»: prima lavorare gratis, poi, chissà. Intanto, spazi e manodopera a costo zero: e lo chiamano libero mercato.
Il carcere è fabbrica ma chi ci vive non ha riconosciute la dignità e le prerogative del lavoratore.
Due le domande:
Il XV Rapporto di Antigone certifica che vi sono 60.439 detenuti per 50.511 posti «ufficialmente» disponibili.
Come si concilia l’esistenza di «spazi inutilizzati» con questo drammatico sovraffollamento? Che cosa pensano di questo uso intensivo del lavoro non retribuito di detenuti i Garanti dei diritti delle persone private della libertà e i sindacati?
* Fonte: Sergio Segio, IL MANIFESTO
Foto di Clker-Free-Vector-Images da Pixabay
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