Brexit. Dopo tre anni catastrofici, l’abbandono di Theresa May

by Leonardo Clausi * | 8 Giugno 2019 8:44

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LONDRA. Come annunciato un paio di settimane fa in un toccante discorso di commiato che ci ha riportato ai tempi della nostrana Tv del dolore (fisico), ieri Theresa May ha dato le dimissioni da leader del partito conservatore. May l’icona dell’empowering pseudofemminista, irriverente solo nelle scarpe nonostante il bracciale con l’effigie dell’incolpevole Frida Kahlo, finalmente gira i tacchi leopardati. Resterà prima ministra fin quando la procedura interna al partito non avrà eletto colei/lui che le succederà.
NON SARÀ RIMPIANTA, eccezion fatta per i benestanti elettori del suo collegio di Maidenhead, nel sudoccidentale Berkshire, che non vedono l’ora di vederla tornare a dedicarsi al torneo di croquet della ridente cittadina.

Ferve il dibattito su dove esattamente collocare la sua nella classifica delle peggiori premiership di sempre: il «venduto» Ramsay MacDonald, l’appeaser Neville Chamberlain, l’autore der pasticciaccio brutto di Suez Anthony Eden, e l’unanimemente favorito David “vinco il referendum sull’Ue e torno” Cameron. Ma è ancora presto per dire se May abbia sbaragliato la competizione: bisogna attendere che il Brexit-Titanic si adagi sul fondale della storia, oltre che sul palcoscenico della commedia.

BREXIT – O MEGLIO L’EUROPA – è sempre stato un micidiale mulino politico per i Tories, ne sa qualcosa la lady di ferro Margaret Thatcher – ben altra leader, signora mia – che ne uscì macinata a sua volta. Theresa May avrà avuto anche determinazione e tenacia: ma sono qualità che, male indirizzate, non fanno che accelerare la catastrofe. E ricordiamole ancora una volta le stupidaggini perseguite con tenacia e determinazione dalla figlia del pastore: spostare tutto il baricentro del suo governo a favore dei terrapiattisti della destra filo-brexit – quelli della cosiddetta global Britain – convocare elezioni anticipate senza saper fare campagna elettorale perdendovi la maggioranza e consegnandosi al Dup, negoziare un trattato di uscita dall’Ue capace di frustrare ugualmente sia i guelfi del leave che i ghibellini del remain, vederselo sconfiggere tre volte con dei margini totalitari e vedendosi cadere attorno ministri come foglie autunnali (chi mai ha ricevuto oltre quaranta dimissioni dai propri ministri?).

MA A PARTE GAME OF BREXITfantasy scadente con i barattoli di cocacola dimenticati sul set, frutto della crisi del 2008 e di un Paese che non ha ancora fatto i conti con la propria marginalità nello scacchiere geopolitico contemporaneo, la dipartita di May provoca sollievo: basta guardare il suo lascito nella carne e nel sangue della società. Parliamo delle ben più serie porcherie accadute durante il suo mandato, come la sciagura di Grenfell Tower, il puzzolente trattamento dei migranti caraibici della Windrush Generation e, per chiudere in nefandezza, con la cosiddetta politica dell’ambiente ostile, da lei disposta quando ancora era ministra dell’Interno: quell’hostile environment che doveva dissuadere i migranti «economici» – per usare un’odiosa quanto abusata locuzione – dal succhiare alla mammella del welfare e del lavoro britannici.
«Good riddance Theresa», sono stati tre anni bruttissimi. Ed è quest’ostilità, non creata ma assecondata, il lascito. Meglio il croquet e i sandwich al cetriolo a Maidenhead, mentre il partito continua il suo auspicabile declino sotto la (brevissima) guida del prossimo terrapiattista.

BORIS JOHNSON, IL FAVORITO alla leadership alle cui cure probabilmente il paziente non sopravvivrà, è nel frattempo stato scagionato dall’accusa intentatagli di aver ingannato l’elettorato con la bufala dei 350 milioni sottratti all’Nhs e versati a Bruxelles. La strada è sgombra.

Nel frattempo, sul fronte Labour – un partito che, a sentire le rauche grida dei media mainstream nazionali è ormai più antisemita dello Jobbik ungherese – è da registrarsi la miracolosa e assai marginale vittoria nelle elezioni suppletive di Peterborough, Inghilterra orientale, dove la candidata Lisa Forbes ha di stretta misura battuto il candidato del Brexit Party di Nigel Farage.

«CHI CI DÀ PER SPACCIATI lo fa a suo rischio e pericolo» ha detto un combattivo Corbyn. Il partito è pronto alle elezioni politiche ha detto il leader laburista, come del resto ripete ormai da mesi. Purché non riammettano Alastair Campbell – l’ex spit doctor di Blair scacciato per aver votato Libdem alle europee – mai più. L’igiene innanzitutto.

* Fonte: Leonardo Clausi, IL MANIFESTO[1]

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