Sudafrica alle urne: l’African National Congress vince, ma anche perde
La sesta tornata di elezioni generali dalla fine dell’apartheid in Sudafrica – si è votato mercoledì scorso per rinnovare il parlamento, affluenza al 65,59% – lungi dal mettere in discussione l’egemonia dell’African National Congress (Anc) e i rapporti di forza sulla scena politica, offriva comunque una verifica su quanto l’epilogo disastroso della presidenza di Jacob Zuma avesse inciso sull’elettorato del partito, già afflitto da un bel trend di decrescita (70% nel 2004, 66% nel 2009, 62% nel 2014).
Il 57-58% che ieri andava profilandosi con la quasi totalità delle schede scrutinate dice che la flessione c’è stata eccome, anche rispetto ai sondaggi. È la peggiore performance del partito di Mandela, che per la prima volta scende sotto la soglia dei 9 milioni di voti. Ma in molti sono pronti a scommettere che con un leader diverso da Cyril Ramaphosa, già delfino mancato di Madiba, ex leader sindacale e poi miliardario, subentrato a Zuma nel dicembre 2017 alla guida del partito e poco dopo alla presidenza del paese, il partito avrebbe subito perdite molto più severe.
Quasi un niente di fatto per la formazione liberal-conservatrice Democratic Alliance (Da), dopo l’exploit alle amministrative del 2015 in cui aveva strappato all’Anc città del calibro di Johannesburg e Pretoria. Il partito eterno secondo guidato dal 38enne Mmusi Maimane si conferma nella sua provincia-roccaforte del Capo occidentale, dove vola oltre il 55%, ma altrove non cresce o paga pegno. Il dato nazionale è 20,69%. Del resto il voto della destra moderata afrikaner sembra aver preso la strada del Freedom Front Plus (VF+), che raddoppia i consensi e diventa il quinto partito (2%).
Il dibattito sulle espropriazioni ai grandi proprietari terrieri ha inevitabilmente favorito gli estremi, per la paura da un lato e la speranza dall’altro che le aperture di Ramaphosa su un tema così spinoso portassero a qualcosa di concreto.
Sta di fatto che la festa più chiassosa ieri era quella in casa del partito Economic Freedom Fighters (Eff), che della ridistribuzione (almeno) delle terre, costi quel che costi, ha fatto la sua bandiera. Nati nel 2013 da una costola arrabbiata dell’Anc dopo l’espulsione del leader della sua Lega giovanile Julius Malema, accusato spesso di eccedere nei toni e nella retorica populista, i «baschi rossi» hanno avuto buon gioco nel fustigare la deriva etica del partito sotto il regno di Zuma e l’irrilevanza delle sue politiche per le fasce più povere della popolazione, consegnate di fatto a un apartheid squisitamente economico. Così il 6,35% dei Combattenti per la libertà economica alla loro prima uscita nel 2014 oggi è diventato l’11% circa. È l’unico partito a crescere in tutte e 9 le province sudafricane e in tre di queste, Free State, North West e Limpopo, scavalca addirittura la Da diventando il secondo partito dopo l’Anc.
Dalle urne esce infine malconcia l’altra costola dell’Anc che negli ultimi anni ha tentato la fortuna autonomamente, quella moderata del Congress of the People(Cope): il misero 0,28%, vuol dire che il milione e 300 mila voti racimolati al debutto nel 2014 sono evaporati, e con essi i tre seggi che aveva in parlamento.
In sottofondo resta il brusio di protesta di 35 partiti minori che recriminano contro il sistema elettorale sudafricano. Il nuovo parlamento eleggerà il nuovo presidente. Ovvero confermerà Ramaphosa.
* Fonte: Marco Boccitto, IL MANIFESTO
photo: Discott [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]
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