Salone del Libro. Un macigno che pesa su una politica apatica

Salone del Libro. Un macigno che pesa su una politica apatica

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La presenza fascista nella più importante manifestazione editoriale italiana non è un «fatto culturale». È un oltraggio alla cultura. Chiedere alle vittime e ai loro eredi di condividere lo stesso spazio con i loro carnefici (e i loro eredi) non è atto voltairiano di libertà di pensiero.

Ma un gesto di disumanità e di apatia morale intollerabile. Hanno ragione i rappresentanti del Museo di Auschwitz quando richiamano le istituzioni «proprietarie» dell’evento – il Governatore del Piemonte e la Sindaca di Torino in primis – alle loro responsabilità per rimediare alla precedente pilatesca passività. Così come ha ragione – mille volte ragione – quella parte del mondo della cultura che si mobilita di fronte all’oltraggio a quella che è la (residua) dignità degli intellettuali, lacerandosi, certo, dividendosi tra posizioni che hanno, a mio modo di vedere, pari dignità, tra chi intende esprimere la propria indignazione con il rifiuto della propria partecipazione (con l’idea che questa suonerebbe come accettazione). E chi invece intende esserci con la propria combattiva presenza (con l’idea che non esserci significherebbe lasciare agli altri libero il campo). Entrambi con la consapevolezza della portata della sfida in corso: della minaccia, inedita, che la falla aperta dallo sdoganamento di ciò che la fine della seconda guerra mondiale aveva condannato (si pensava definitivamente) si trasformi in apocalissi culturale, e poi politica, e sociale se una forma di relativismo rinunciatario aprisse il campo al trionfo del disumano. Gli uni e gli altri, cioè, consci dell’enorme responsabilità che pesa su ognuno di noi, se nel qui e ora che viviamo restassimo in silenzio.

Ma la responsabilità che grava sul mondo della Cultura è poca cosa – una briciola – rispetto al macigno che pesa sul mondo della Politica. Lo scandalo più grande, quello veramente sconvolgente nell’Italia di oggi, potremmo dire «il vero scandalo», non è solo lo sfregio che lo stand fascista porta al Salone del Libro di Torino, ma quello, enormemente più grave e intollerabile, all’intero Paese, rappresentato da un ministro della repubblica che da quell’editore filo-fascista e filo-nazista pubblica. Sta lì il bandolo della matassa che dal colle del Viminale scende fino ai padiglioni del Lingotto, e ne inquina il clima e l’anima. Sta in quella presenza, nel cuore del Governo della nazione, ciò che oggi suona come intollerabile. Fino a ieri impensabile. Oggi esibito come un trofeo. E se il mondo della cultura si muove, si tormenta e si mobilita, colpisce l’irenica apatia del mondo della politica. L’ignavia, diciamolo pure, quella da Antinferno, che percorre trasversalmente l’arco politico, con chi dovrebbe vigilare sull’ordine costituzionale e langue invece assopito nei fatti propri, a guardare gli intellettuali agitarsi come se la cosa non lo riguardasse. Ci si aspetterebbe che le opposizioni insorgessero chiedendo le immediate dimissioni di quel ministro fedifrago che pur avendo giurato sulla Costituzione nata dalla Resistenza pubblica le proprie esternazioni in casa dei nemici dell’umanità. Che minacciassero un nuovo Aventino o in alternativa l’occupazione delle aule parlamentari finché Matteo Salvini non lascia il suo Ministero. Insomma, che quegli assonnati democratici quantomeno di nome uscissero dal loro mortifero letargo, consci del vulnus grave portato alla dignità repubblicana con quello sciagurato contratto editoriale che assomiglia tanto a un pactum sceleris. E con l’indecente connubio tra un’organizzazione come Casa Pound, che a norma di legge dovrebbe essere sciolta e messa al bando e il capo del Ministero a cui dovrebbe competere la vigilanza sulla legalità repubblicana.

Per ora gli «intellettuali» che a Torino s’indignano, ognuno con le proprie forme di espressione, svolgono un ruolo di supplenza assai prezioso anche se parziale. Ma fino a quando una democrazia può sopravvivere all’ignavia dei suoi custodi istituzionali?

* Fonte: Marco Revelli, IL MANIFESTO



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