by Alberto Negri * | 17 Maggio 2019 9:00
Come si costruisce un nemico? La narrativa che si vuole fa passare è che Teheran è una minaccia e gli Stati Uniti, con i loro alleati, Israele e Arabia Saudita, difendono, oltre al petrolio, il mondo libero. Come ai tempi in cui gli Usa montarono l’Operazione Aiace, il colpo di stato in Iran del ‘53 contro Mossadeq.
Ma da dove prendono le idee Pompeo, Bolton, Pence, gli uomini di Trump? Vennero forgiate più di 40 anni fa, prima della caduta dello Shah nel’79. Pompeo dichiara di rifarsi a Bernard Lewis, lo studioso di islam, ex agente dei Servizi britannici al Cairo negli anni’40, l’ispiratore dell’attacco all’Iraq nel 2003 per mano di Bush junior e di Dick Cheney.
Uno degli aspetti forse più interessanti della vicenda è ricostruire cosa accadde allora a Washington e come il copione si replica ora. Quando alla fine del ’78 si capì che era probabile a Teheran l’ascesa del fronte clericale, il presidente Carter nominò il diplomatico George Ball capo di un task force incaricata di elaborare un rapporto sull’Iran. George Ball, in realtà, ricalcò uno studio sul fondamentalismo islamico di Bernard Lewis, professore emerito all’Università di Princeton. Il piano di Lewis, reso noto nell’incontro del Bilderberg Group nell’aprile del 1979 in Austria ma elaborato mesi prima della rivoluzione, appoggiava i movimenti radicali islamici dei Fratelli Musulmani e di Khomeini per promuovere la balcanizzazione dell’intero Medio Oriente lungo linee tribali e religiose. Un piano già auspicato anche da Ben Gurion.
Per Lewis l’Occidente doveva incoraggiare gruppi indipendentisti come curdi, armeni, maroniti libanesi, copti etiopi, turchi dell’Azerbaijan: il disordine sarebbe sfociato in un «Arco di Crisi», per poi diffondersi nelle repubbliche musulmane dell’Urss. L’espressione «arco della crisi» ebbe enorme fortuna, fu ripresa da Brzezinski con la teoria di utilizzare l’islam in funzione antisovietica e si diffuse sui media. E fu lo stesso Lewis a parlare di «scontro di civiltà», ancora prima di Samuel Huntington.
L’Iran si rivelò un problema più per gli Usa che per Mosca ma l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa nel dicembre ’79 diede un impulso straordinario alla teoria di Lewis: gli Usa con l’appoggio militare del Pakistan e quello finanziario dell’Arabia Saudita armarono migliaia di mujaheddin che inchiodarono i russi nel Jihad, una «guerra santa» devastante che nell’89 costrinse i sovietici a ritirarsi.
Con la fine dell’Urss, Washington abbandonò l’islam radicale al suo destino, fino all’11 settembre 2001. Ma lo riprese come strumento di politica estera con la guerra in Siria del 2011 per abbattere Bashar Assad con l’avanzata di jihadisti e Isis sotto la direzione della Turchia e con gli stessi soldi delle monarchie del Golfo. Era il «caos creativo» che piaceva a Hillary Clinton. Vent’anni dopo la rivoluzione iraniana, Bernard Lewis è stato l’intellettuale più influente nella decisione americana di invadere l’Iraq nel 2003. Bush jr. circolava con i suoi saggi sottolineati dai collaboratori. Nel ’78 Lewis pensava di usare gli islamici in funzione anti-sovietica, poi fu il più strenuo sostenitore della necessità di rovesciare Saddam Hussein: lo definì «un passo decisivo per una spinta modernizzatrice a tutto il Medio Oriente».
Tutti i neo-con andarono a lezione da lui e nel 2007, all’American Enterprise Institute, Lewis, ormai novantenne, fu accolto da una standing ovation guidata dal vicepresidente Cheney. «Se avremo successo nell’abbattere il regime iracheno e iraniano – aveva scritto Lewis nel 2002 – vedremo a Baghdad e Teheran scene di giubilo maggiori di quelle seguite alla liberazione di Kabul». Ma né a Kabul né a Baghdad ci furono le scene gioiose immaginate dal professore. Le cose sono andate diversamente. Ma oggi Pompeo e Bolton tornano al «Piano Lewis» per sostenere operazioni coperte in Iran, accompagnate da sanzioni giugulatorie, per disgregare il Paese dall’interno, puntando sulle divisioni etniche e settarie, sui Mujaheddin Khalk (3mila ospitati in Albania) e sugli esiliati all’estero.
L’obiettivo è convincere – e auto-convincersi – che «in Iran nessuno uomo o donna moderna sostiene gli ayatollah» e che se ci sarà un intervento militare gli americani verranno accolti con mazzi di fori. Naturalmente non c’è nessun esperto che avalli questa visione e Putin lo ha reso chiaro a Pompeo due giorni fa. Ma non importa. La cerchia di Washington ha in mano una sfera di cristallo che guarda il mondo attraverso il prisma degli evangelici e della Grande Israele. Ecco in che mani siamo.
* Fonte: Alberto Negri, IL MANIFESTO[1]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2019/05/iran-ovvero-la-costruzione-del-nemico/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.