by Andrea Colombo * | 3 Maggio 2019 9:49
«Ho valutato sia la necessità che l’opportunità delle dimissioni di Armando Siri». Il verdetto del premier Giuseppe Conte è arrivato ieri pomeriggio, con una conferenza stampa convocata a stretto giro. Conferenza stampa senza domande della stampa. Conte non gradisce e dribbla: «Sono già stato esauriente». Nel prossimo consiglio dei ministri il premier proporrà di dimissionare d’autorità il sottosegretario. Se tutti saranno d’accordo non ci saranno problemi. Se invece la Lega si opporrà si dovrà votare e in quel caso di problemi ce ne saranno a volontà. «Spero che non si voti ma nel caso abbiamo la maggioranza», va giù secco Luigi Di Maio.
PER QUANTO RIGUARDA la sorte di Siri, in effetti, non ci sarebbe grande differenza. Per quella del governo invece sì, perché una scelta simile presa a maggioranza rappresenterebbe una ferita molto difficile da sanare. In merito, per ora, Salvini non si sbilancia. «La decisione spetta a Conte e Siri», afferma lavandosene in apparenza le mani. Poi però aggiunge: «Purché me la spieghino e Conte dovrà spiegarmela». In ogni caso sottolinea che si tratta di «una vicenda locale che non ferma il governo». Non sono i toni di chi si prepara alla battaglia. Sembra al contrario che il leader leghista abbia scelto di cedere, un po’ rendendosi conto che per Di Maio la questione è diventata troppo importante per non chiuderla come richiesto sin dall’inizio, e un po’ perché il terreno della corruzione è scivoloso, il peggiore immaginabile per uno showdown con i soci. Se la vendetta arriverà sarà più tardi e adoperando come bandiera nodi politici più facilmente difendibili. Non a caso Salvini ha anche sottolineato che lui chiede ai 5 Stelle di fare presto «non sulle dimissioni di Tizio o Caio ma sulla Flat Tax». Di certo dunque la Lega non aprirà una crisi di governo su Siri. Ma se accetterà o meno il verdetto di Conte in sede di consiglio dei ministri condizionerà pesantemente e da subito i rapporti già più che deteriorati nella maggioranza.
LA DECISIONE del premier non poteva che essere pollice verso. Di Maio, che ora si dichiara «contento per il governo», non avrebbe potuto accettare altro esito. La scelta era già scritta, restavano in dubbio solo i tempi e le modalità – perché Conte ha sperato sino all’ultimo che il sottosegretario lo togliesse d’imbarazzo con un beau geste – e le argomentazioni con cui spiegare la cacciata del sottosegretario leghista indagato. Ma in queste cose l’avvocato Conte è abile. Nessun giustizialismo, assicura: si valuta caso per caso. Ma in questo caso l’emendamento proposto da Siri, e non accolto dal governo, «non avrebbe offerto parità di chance a tutti gli imprenditori ma una sorta di sanatoria solo per alcuni». Insomma, Siri deve dimettersi «in ragione dei fatti» e poco male se, messe così le cose, l’affermazione secondo cui l’allontanamento non equivale a dichiararlo colpevole suona un bel po’ stridente.
Conte fa l’equanime anche nei moniti ai due partiti. Alla Lega chiedere di «non essere corporativa», ai 5 Stelle di «non cantare una vittoria politica». Di Maio infatti è solerte nell’assicurare che «non c’è vittoria né sconfitta». Ma lo sforzo per non esultare come allo stadio è titanico.
UN ATTIMO PRIMA della conferenza del premier, Siri aveva cercato di anticiparlo con un comunicato in cui garantiva dimissioni entro 15 giorni se entro quel termine non fosse stato ascoltato dai magistrati e non fosse stato prosciolto da ogni addebito. Un ultimo disperato tentativo di mediazione che avrebbe potuto avere successo in circostanze diverse e senza la campagna elettorale. Ma a questo punto un rinvio di due settimane non poteva essere tollerato né da Di Maio, che lo bolla come «una furbata», né dallo stesso Giuseppe Conte, quasi altrettanto drastico: «Non vedo cosa possano cambiare dichiarazioni spontanee. Le dimissioni o si danno o non si danno. Non si annunciano».
Il prossimo consiglio dei ministri si riunirà l’8 o il 9 maggio. La Lega ha una settimana di tempo per decidere come rispondere e se arrivare allo scontro aperto in sede di consiglio dei ministri o rimandare la resa dei conti. Ma la decisione di arrivare a una prova di forza senza mediazioni, necessaria per l’immagine dei pentastellati, non potrà restare senza conseguenze. «Fare campagna elettorale sulla pelle delle persone non porta mai bene», profetizza il capogruppo leghista Riccardo Molinari.
* Fonte: Andrea Colombo, IL MANIFESTO[1]
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