Spagna. Pedro Sánchez tenta un governo monocolore con appoggio esterno
Per iniziare, i socialisti esploreranno la possibilità di ripetere l’esperienza di un monocolore. Lo ha spiegato ieri mattina la vicepresidente del governo Sánchez, Carmen Calvo. Non è abituale che a solo un giorno dal voto i politici si espongano, e meno ancora quando si prospetta una lunga fase di delicati negoziati. Ma Calvo ha chiarito che Sánchez proverà a formare un governo con appoggio esterno, come quello uscente. In fondo, quello contava su 84 deputati e questo parte da 123. Ma la situazione politica è molto diversa: allora Podemos e Izquierda Unida (e tutti i partiti nazionalisti) dovettero fare buon viso a cattivo gioco pur di cacciare Rajoy. Oggi è chiaro che Pablo Iglesias spinge per entrare nel governo, anche se a Sánchez non basterà l’appoggio di Podemos per superare il primo scoglio: l’investitura. È opportuno ricordare che la tradizione politica spagnola contempla governi di minoranza (lo sono stati la maggioranza), ed è invece poco abituata alle coalizioni governative. A livello nazionale i governi sono sempre stati monocolore (al massimo con qualche indipendente).
Una volta investito (in prima votazione ci vuole la maggioranza assoluta, ma in seconda votazione basta una maggioranza di sì, con qualche astensione Sánchez ce la potrebbe fare), scalzare un governo è difficilissimo perché ci vuole una mozione di sfiducia costruttiva, come quella che fece fuori Mariano Rajoy un anno fa: fu la prima volta in Spagna. Altra cosa è che si debba poi negoziare ogni provvedimento.
Il timore di Unidas Podemos rimane sempre quello: che il Psoe finisca per corteggiare Ciudadanos. In fondo con loro, Sánchez sulla carta avrebbe una comoda maggioranza di 180 voti. Oggi sembra fantapolitica, dato il disprezzo di Ciudadanos (che è arrivato a chiedere in campagna elettorale un «cordone sanitario» per impedire a Sánchez di governare), nonché l’evidente ambizione di Albert Rivera di scalzare Pablo Casado dalla leadership della destra. Ma non si sa mai, fra qualche mese le cose potrebbero cambiare. I poteri forti – giornali, imprenditori e banche – stanno già mandando segnali molto evidenti in quella direzione.
Intanto UP si sforza di mandare segnali distensivi verso la Moncloa, sostanzialmente implorando di parlare con loro. Anche i militanti socialisti ieri notte gridavano a Sánchez «con Rivera no» (i video sono girati sulle reti sociali come un fulmine), ma sia Sánchez che Calvo sono stati molto abili a non chiudere ancora tutte le porte agli arancioni, anche se sembra chiaro che i primi gesti saranno verso Pablo Iglesias e Alberto Garzón, e magari verso i baschi di Pnv (sempre disponibili ad accordi) in modo che servirebbero solo 4-5 astensioni per superare il voto di investitura.
Nel frattempo il Partito popolare trema: nessuno per ora esce allo scoperto, ma è chiaro che la leadership di Casado è messa in discussione. Per ora la giustificazione che danno i suoi è che è «solo» la prima volta che si presenta. Vedremo se alcuni dei pesi “massimi” del partito che finora sono rimasti da parte si faranno avanti. Vox intanto cerca di nascondere col suo abituale tono aggressivo la delusione. Pensavano di ottenere risultati molto migliori. «Mi piace l’odore del panico fra i progre al mattino», diceva il leader del partito qualche settimana fa. D’altra parte Gabriel Rufián (Esquerra Republicana), pur promettendo che il suo partito non permetterà mai l’arrivo della destra, chiarisce che non daranno un «assegno in bianco» a Sánchez ed esigeranno un tavolo di negoziazione sulla Catalogna, per parlare anche di referendum e di leggi per sospendere la causa contro gli indipendentisti.
Il primo banco di prova è il 21 maggio, quando si costituirà il parlamento e si dovranno eleggere presidente e presidenza: è qui che inizieranno a profilarsi alleanze – e i socialisti hanno subito in questi mesi il blocco imposto dalla maggioranza Pp-Ciudadanos proprio in questo organo all’inizio della scorsa legislatura.
* Fonte: Luca Tancredi Barone, IL MANIFESTO
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