Sciopero della fame per Ocalan e il popolo curdo: «Alzate la voce, il silenzio ci uccide»

Sciopero della fame per Ocalan e il popolo curdo: «Alzate la voce, il silenzio ci uccide»

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«Inviate mail alla Corte penale, rendete visibile questo sciopero. Dopo la morte di Lorenzo Orsetti, le piazze si sono riempite. Ma c’è chi ha capito il suo sogno?»

ROMA. Erol Aydemir non tocca cibo da 15 giorni. I compagni di Ararat gli hanno destinato una stanza, poco dopo l’ingresso del centro curdo a Testaccio: un letto, due tappeti, un comodino con su i libri e una bottiglia d’acqua, una stufetta elettrica.

Dal 21 marzo, giorno di Newroz, il capodanno curdo, Erdol è in sciopero della fame contro l’isolamento che da vent’anni il governo turco impone al leader del Pkk Abdullah Ocalan, nell’isola-prigione di Imrali.
Mercoledì il medico lo ha visitato: stanno comparendo i primi problemi fisici, la pressione è scesa e il cuore indebolito.

«Eppure mi sento forte», ci dice. Sul muro dietro di lui i compagni hanno appeso una bandiera del Pkk, il volto di Apo e le foto di chi, come Erol, rifiutano il cibo come estrema forma di protesta: c’è Leyla Guven, al 148esimo giorno di digiuno, e i 14 compagni di Strasburgo, al 109esimo. «Assumo solo acqua, 100 grammi di zucchero al giorno e sale. Ma mi sento bene, forte, perché sto facendo qualcosa. Voglio rompere il silenzio che c’è in Italia».

«Ho scelto di iniziare il giorno di Newroz, un giorno di festa ma anche di resistenza. E ho deciso di farlo dopo essere tornato da quattro mesi in Rojava e a Sinjar: mi sono sentito in debito. Ho visto la rivoluzione e il confederalismo democratico che avevo letto e riletto nei libri di Ocalan. Volevo capire come fosse possibile realizzare una cosa del genere. È difficile capirlo per chi vive immerso in una società capitalista».

Ormai da mesi lo sciopero della fame è collettivo: 7mila prigionieri curdi nelle carceri turche e centinaia di persone fuori, dal Kurdistan all’Europa. Una forma di protesta che ha nel corpo la sua arma e che ricorda identiche lotte del passato, negli anni Ottanta in Kurdistan e dagli anni Sessanta in poi tra i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.

Erol è tra questi. Studente, arrivato in Italia quattro anni fa come rifugiato politico, è immerso nella politica da quando era ragazzino. In Turchia è stato espulso da due università per ragioni politiche e ha trascorso due anni in prigione: «Mi hanno arrestato perché facevo teatro all’università, dicevano che lo usavo per fare propaganda a favore del Pkk».

Ora vive a Cagliari, è tornato ad Ararat per lo sciopero della fame. Per condurlo tra compagni: «Chiedetevi perché migliaia di persone rifiutano il cibo. Non lo stiamo facendo solo per Ocalan, ma per il popolo curdo. Quando il governo turco isola Ocalan, isola l’intero nostro popolo. Quando tortura Ocalan, tortura tutti i curdi. E tutti i popoli: con la rivoluzione di Rojava e il confederalismo democratico il mondo ha scoperto che l’ideologia di Ocalan si fonda sulla libertà di tutti i popoli, ovunque».

«Non amiamo morire, amiamo la vita. Sono già morti sette compagni in carcere perché nelle prigioni turche non danno loro nemmeno lo zucchero. Decine di scioperanti hanno perso la vista».

Mercoledì un presidio di fronte Montecitorio ha portato il messaggio dei migliaia che stanno rifiutando il cibo ai parlamentari italiani. Due deputati del Pd hanno ascoltato e promesso che avrebbero portato la questione alla Commissione diritti umani: «I compagni devono capire che non basta la solidarietà – continua Erol – Tutti noi dobbiamo pagare un prezzo per la lotta e se qualcuno di noi muore, come i 12mila compagni uccisi nella lotta all’Isis, la resistenza resta in vita. È il silenzio che uccide. Alzate la voce, inviate mail alla Corte penale, rendete visibile questo sciopero della fame. Dopo la morte di Lorenzo Orsetti, le piazze si sono riempite. Ma c’è chi ha capito il suo sogno? Orso non combatteva per i curdi, ma contro il fascismo e per la libertà. È un dovere comune».

* Fonte: Chiara Cruciati, IL MANIFESTO



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