Roma. Gli antifascisti manifestano a Torre Maura
ROMA. Èil giorno delle rivendicazioni. Dei neofascisti di CasaPound che tornano a Torre Maura per incassare «vittoria», dopo il trasferimento delle famiglie Rom in altri centri di accoglienza. E degli antifascisti che, chiamati a raccolta dall’Anpi, da Libera, dall’Arci e dalla Cgil, arrivano in questo quadrante della periferia est di Roma e sfilano nelle strade della borgata con le bandiere rosse, della Pace e i vessilli di partito, dietro allo striscione «Non mi sta bene che no». Lo slogan che è stato coniato con la frase dell’ormai famoso Simone, il 15enne che ha avuto il coraggio di rompere – nella solitudine più assoluta – il muro razzista contro i rom eretto dall’ultradestra (ed è per questo finito perfino sul Guardian di ieri). Ma gli abitanti di Torre Maura hanno perlopiù snobbato le due iniziative politiche.
QUALCUNO, ma molti di meno che nei giorni scorsi, è tornato a manifestare insieme al centinaio di «fascisti del Terzo millennio» (anche loro in formazione ridotta) radunatisi poco distante dall’ex clinica di via Codirossoni dove per tre giorni sono stati confinati una settantina di rom, compresi 33 minori e alcune donne incinta, assediati da centinaia di persone incattivite.
Qualcun altro, degli abitanti nelle case popolari dell’Ater che fanno da cornice a questo quartiere, si è invece avvicinato alle centinaia di persone provenienti da tutta Roma che hanno partecipato al presidio antifascista e antirazzista (un sit-in che si è poi trasformato in corteo, dopo una breve trattativa per ottenere l’autorizzazione). Ma quasi sempre solo per protestare contro i (pochi) rappresentanti del Pd presenti e delle formazioni politiche: «La sinistra doveva venire prima, avete il pelo sullo stomaco», attacca Raffaella arrivata con i suoi figli in piazzale delle Paradisee. Il capogruppo dem nel VI Municipio, Fabrizio Compagnone, prova a replicare, spiegando che lui c’era, in via dei Codirossoni, a parlare con gli abitanti in rivolta. Ma la donna lo fredda: «Allora potevate chiamare qualcuno, qui non si è visto nessuno». Ce l’hanno con tutti, perché «per noi nessuno ha fatto niente».
«LE PERIFERIE fanno schifo, ve ne dovete anna’», urla un altro uomo rivolgendosi al deputato dem Emanuele Fiano. Qualcuno se la prende anche con il presidente del Pd Matteo Orfini e gli chiede conto del perché hanno fatto fuori l’ex sindaco Ignazio Marino. Dello stesso tenore, i commenti degli abitanti che dai marciapiedi guardano con distacco il corteo. La delusione è forte soprattutto per gli ex elettori della sinistra: «Dove eravamo prima? Tutte queste sigle rispettabilissime dove stavano prima? Abbiamo lasciato spazio alle ultradestre».
Si potrebbe dire meglio tardi che mai. E forse è così che la pensano le centinaia di persone che sfilano nel corteo antirazzista cantando «Bella Ciao» e urlando «Fuori i fascisti dai quartieri», o rivendicando la presenza della propria organizzazione «in tutte le periferie di Roma». Ma c’è anche chi riconosce il torto e fa autocritica: «Non siamo considerati nemmeno presenti in queste zone evidentemente – ammette Emanuele Fiano -, mentre CasaPound e Forza Nuova fanno un lavoro di presenza. Dobbiamo iniziare a inserirci, riaprire sedi, esserci. L’antifascismo non basta».
MEZZO mea culpa anche da parte del pentastellato Enrico Stefàno, il presidente vicario dell’Assemblea capitolina che ha partecipato al presidio antirazzista insieme al capogruppo del M5S in Campidoglio Giuliano Pacetti e ad un paio di consiglieri. La sindaca Virginia Raggi non c’era, neppure questa volta. «Avremmo potuto comunicare meglio con la cittadinanza, ma qui come fai sbagli», ammette Stefàno. Che però nega errori: «Si sta lavorando, utilizzando anche fondi comunitari, per chiudere i campi rom ma la procedura è complicata e facilmente strumentalizzabile. È mancata la comunicazione coi cittadini, è vero, ma errori no, non ci sono stati».
Chi invece sottolinea la cattiva gestione dell’intera vicenda è il Sindacato italiano lavoratori di Polizia presente al presidio antifascista: «Siamo qui perché una società tranquilla non può prescindere dall’integrazione – spiega Antonio Patitucci, segretario generale Silp Cgil Roma e Lazio – Qualunque contesto sociale, per salvaguardare l’ordine pubblico, deve essere improntato all’incontro con le culture. Creare lo scontro sociale, rischiando di fomentare l’odio tra le diversità, rappresenta un pericolo».
* Fonte: IL MANIFESTO
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