by Claudia Bruno * | 11 Aprile 2019 10:36
Era il 1969 quando i televisori trasmisero in diretta le immagini di Neil Armstrong camminare sulla luna, il biologo Robert Geoffrey Edwards annunciò che la fecondazione umana poteva avvenire in vitro, un messaggio venne inviato per la prima volta attraverso la rete che avrebbe anticipato Internet.
E anche se l’aborto nella maggior parte dei paesi non era ancora legale, l’accesso alla contraccezione non era un problema politico, e le donne partorivano in media quasi cinque figli a testa, di lì a poco il controllo delle nascite sarebbe entrato a far parte dell’agenda dei governi, il femminismo avrebbe portato a importanti conquiste in termini di diritti civili, e il progresso scientifico avrebbe contribuito ad aumentare la velocità percepita del tempo.
IL NUMERO DEI GIRI intorno al sole necessari per passare dal primo bambino in provetta alla pecora Dolly, dal primo personal computer immesso sul mercato dall’Ibm alla scoperta del virus dell’Hiv, dalla prima gravidanza surrogata al sequenziamento del genoma umano, non sarebbe più stato una misura sufficiente.
Il nuovo rapporto[1] del Fondo delle Nazioni unite per la popolazione (Unfpa) – diffuso in Italia da Aidos e presentato ieri in contemporanea mondiale in più di cento città – parte da uno sguardo a ritroso sugli ultimi cinquant’anni dell’umanità, la nostra adolescenza storica, un elenco infinito di prime volte.
Un periodo, che si allunga o si accorcia a seconda del punto da cui lo si osserva. In questo arco di tempo, spiega il rapporto, l’aspettativa di vita è cresciuta – da 44 a 65 anni nelle aree meno sviluppate della terra, da 71 a 80 in quelle più sviluppate – e la popolazione globale è più che raddoppiata, arrivando da 3,6 a 7,7 miliardi di persone.
OGGI LE DONNE partoriscono in media la metà dei figli di prima – 2,5 ciascuna – e anche se complessivamente è aumentato l’accesso a informazioni e servizi per la salute sessuale e riproduttiva, le medie globali nascondono profonde disuguaglianze geografiche: se una donna partorisce più o meno figli dipende dal suo essere ricca o povera, dal fatto di abitare in città o in un’area periferica o rurale, dall’età e dal livello di istruzione. Soprattutto in alcune aree del pianeta le persone diventano più vulnerabili, sono costrette a spostarsi o a scappare all’improvviso anche se non l’avevano messo in conto.
IN OTTO ANNI la guerra in Siria ha costretto alla fuga più di metà della popolazione, ma è in Yemen che il collasso ha raggiunto la sua forma peggiore, con 22 milioni di persone in stato di necessità, molte sull’orlo della carestia.
Povertà e divari, crisi idriche e insicurezza alimentare vanno di pari passo con cambiamenti climatici e degrado ambientale, sviluppo insostenibile e scarsa pianificazione urbana: è la stagione dei disastri, un presente che sembra destinato a non finire mai.
Da questo stato di calamità permanente il rapporto ci invita a guardare indietro e poi avanti: 136 milioni di persone che nel 2018 hanno avuto bisogno di aiuti umanitari a causa di guerre, alluvioni, uragani, siccità; più di 500 donne e ragazze che ogni giorno muoiono durante la gravidanza e il parto o per aborti non sicuri; più di 800 milioni di donne attualmente in vita che sono state coinvolte in matrimoni da bambine.
QUALE SENSO POSSONO avere le parole «scelta» e «diritti» al cospetto di questi numeri? Il rapporto cerca di rispondere ripercorrendo le tappe più importanti del percorso che dalla nascita dell’Unfpa, nel 1969, ha portato alla conferenza internazionale del Cairo su popolazione e sviluppo nel 1994, fino agli obiettivi delle Nazioni unite per lo sviluppo sostenibile e al global compact per le migrazioni. Un percorso puntellato di ostacoli ma anche fortemente voluto da donne e uomini che hanno contribuito alla trasformazione sociale, tracciando le basi di quello che potrebbe essere il prossimo futuro in termini di politiche.
E SE DATE E STIME non bastano per comprendere gli eventi, sono le storie di sei donne di sessant’anni, sette di trentacinque, vissute a differenti latitudini, ad aprire e chiudere il volume.
Le più anziane avevano 10 anni quando il primo uomo toccò la luna, 24 quando la prima donna (Sally Ride) s’imbarcò nello spazio a bordo dello shuttle Challenger. Alcune di loro sognavano una vita diversa, altre erano state addestrate a non nutrire troppe ambizioni.
«Il matrimonio era l’unica opportunità, l’unico futuro che potessi prevedere» racconta Dahab, 60 anni, della periferia del Cairo. Josephine a 10 anni voleva diventare un’insegnante ma la guerra civile in Uganda ha interrotto i suoi progetti, e solo da adulta ha potuto farsene qualcosa delle sue capacità, intraprendendo una carriera politica come amministratrice sul territorio.
«Ho sfatato il mito che fosse un lavoro da uomini e spianato la strada ad altre donne che sono state assunte in posizioni simili in altri distretti» spiega.
«OGGI LE DONNE sanno di avere dei diritti e dovrebbero essere in grado di decidere cosa accade ai loro corpi» dice Alma, del Guatemala, una madre persa durante il settimo parto e un terremoto che le ha cambiato la vita, quando un anno dopo si è ritrovata nelle strade ad aiutare gli abitanti della sua regione e non ha più smesso di lavorare per la giustizia sociale.
Tefta voleva frequentare l’università e diventare un medico, qualcosa di impensabile nell’Albania di quando era ancora una ragazzina, dove «eravamo obbligate a fare quello che ci dicevano di fare», racconta. È diventata più tardi un’infermiera ostetrica, oggi è «felice di aver aiutato molte donne a partorire, anche nelle case, perché negli ospedali non c’era posto».
Fanie di Haiti, Um Ahmed del Cairo, Marta Paula della Guinea-Bissau, Mediha della Bosnia Herzegovina, Tsitsina del Brasile, Rasamee della Tailandia, Sahra dello Sri Lanka, potrebbero essere le loro figlie. Hanno 35 anni, hanno già avuto tutti i loro bambini, stanno per averli, o ci stanno ancora pensando.
A DIFFERENZA di molte delle loro madri alcune sono leader e direttrici, gestiscono l’economia della famiglia e ricoprono una varietà di ruoli dentro e fuori dalle case, ringraziano i genitori per il sostegno ricevuto. Altre, costrette in una spirale di povertà e violenza, affermano di non aver mai visto i cambiamenti di cui tanto si parla. C’è chi, come Sahra, nata e cresciuta nello Sri Lanka, affidata al padre dopo il divorzio dei suoi, perché la madre versava in condizioni finanziarie instabili, adesso porta a casa lo stipendio più alto.
O chi, come Tsitsina, nata e cresciuta in una comunità indigena brasiliana, a dispetto delle aspettative degli altri, ha deciso di non sposarsi e non avere figli per continuare a studiare e viaggiare.
* Fonte: IL MANIFESTO[2]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2019/04/la-stagione-dei-disastri-il-rapporto-del-fondo-onu-per-la-popolazione/
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