Il valore del cibo. Intervista a Cinzia Scaffidi
Agricoltura, produzioni locali, prodotti tipici, sostenibilità: oramai da molti anni la narrazione collettiva e la comunicazione politica nel nostro Paese e in Europa sembrano orientarsi verso produzioni di qualità e attenzione all’ambiente e alle filiere. Quanto di tutto ciò sta diventando politiche concrete e quanto invece è collegato a mode recenti? Quanto le trasformazioni del mercato possono modificare la crescita di un’agricoltura realmente sostenibile? Risponde qui Cinzia Scaffidi, con una lunga esperienza e responsabilità in Slow Food.
Rapporto sui Diritti Globali: Ormai da anni in Italia di parla di prodotti tipici, lo fanno le imprese, i governi, persino alcune associazioni di categoria. Ma che significa effettivamente tipicità, soprattutto se collegata alla tutela dei diritti e dell’ambiente?
Cinzia Scaffidi: La questione della tipicità, paradossalmente, potrebbe non significare nulla. Il fatto che sia legata a un luogo, a una particolare varietà genetica o a condizioni ambientali e culturali specifiche non è necessariamente sinonimo di sostenibilità. In Italia, nel corso degli anni, è diventata in qualche maniera sinonimo di alta qualità e di valore aggiunto, una concezione molto legata alla cultura dell’Europa del sud, mediterranea, che valorizza l’unione tra prodotto e territorio, basti pensare al pomodoro campano. Un approccio che spiega il motivo per cui la maggior parte delle IGP (Indicazioni Geografiche Protette) siano legate all’Europa meridionale, mentre nel Nord la fiducia del consumatore è molto più rivolta al marchio.
Tutto questo ha ovviamente una spiegazione: le condizioni climatiche e culturali sono fondamentali, ma a volte purtroppo non si capisce con precisione se a questa origine corrispondano anche pratiche agricole sostenibili, capaci di giustificarne effettivamente la qualità. È giusto, come fanno alcune organizzazioni agricole, difendere il prodotto italiano, ma potrebbe non bastare se manca il riferimento al tipo di scelte produttive che sono state fatte. E non è un elemento secondario.
La questione si complica se ampliamo il nostro sguardo dalle pratiche agronomiche a tutto il resto; ad esempio, alle normative di tutela dei diritti del lavoro, all’attenzione sull’impatto sociale e ambientale. Paradossalmente, potrebbe succedere che un prodotto coltivato nella maniera più corretta dal punto di vista agronomico, sia scorretto dal punto di vista sociale e non tenere conto di questi aspetti rischia di farci fare uno storytelling della produzione di qualità un po’ zoppicante.
Slow Food ha realizzato il progetto dell’etichetta narrante, un passo avanti deciso rispetto alla semplice normativa che spesso risulta debole nell’applicazione, anche perché c’è ancora poca chiarezza sui processi di equità sociale e di rispetto del diritto del lavoro, soprattutto quando si tratta di manodopera straniera, che coinvolge ad esempio i migranti, o stagionale.
Esistono zone in cui le condizioni di lavoro sono andate via via migliorando, come nei vigneti delle Langhe, ma il mondo del vino rischia di essere una questione a sé, viste forse anche le economie che riesce a creare. Il mondo dell’ortofrutta, invece, soprattutto quello legato ai mercati generali, fa più fatica, e su questo il ruolo del consumatore diventa importante perché se non ha abbastanza competenze ed educazione sul cibo finisce per pensare solo al prezzo, senza considerare quanto effettivamente costa a livello collettivo un prezzo basso, che impatta non solo sui lavoratori coinvolti, ma su tutti noi. Bisogna anche capire che quando vengono lesi dei diritti, questi sono lesi per tutti, e chi deve protestatre per i diritti calpestati devono essere le persone i cui diritti sono invece garantiti.
Spiace vedere come l’idea di tipicità venga usata e considerata dai governi: un’etichetta a volte posta su un barattolo vuoto, perché si dà per scontato che parlare di tipicità significhi riferirsi alla qualità; se è così, allora l’attenzione andrebbe posta sempre, non solo quando c’è da tagliare nastri. Perché tutelare le nostre tipicità significa avere un approcco complesso, fatto di tante decisioni quotidiane.
RDG: Nel corso degli ultimi anni,l’Unione Europea sta negoziando molti trattati di liberalizzazione commerciale con altri Paesi. Come possono impattare sulla nostra piccola agricoltura?
CS: Impattano, e molto, perché questi accordi vengono fatti con Paesi che hanno standard di qualità che sono più deboli dei nostri, negoziamo accordi con realtà che hanno stili produttivi lontanissimi da quelli europei sia nella pratica, ma soprattutto come filosofia. Cosa vuole dire “armonizzare gli standard”? Vuol dire abbassare i nostri: se, ad esempio, un agricoltore canadese deve abbassare il grado di umidità del grano durante la raccolta, utilizza il glifosato, riducendo i prezzi di produzione, perché diminuisce i tempi di essicatura e ottimizza la produzione. Un approccio tecnologico che fa a meno delle competenze, dell’esperienza e delle capacità che invece i nostri agricoltori hanno dovuto sviluppare nel tempo, anche grazie a normative più stringenti. Questo fa sì che i nostri prodotti possano costare di più, mentre quelli importati diventino più competitivi. Per competere con tutto ciò devi contrarre i tuoi costi, e può accadere che, in certe situazioni, ci sia chi decida di violare le norme, ad esempio sul lavoro: se cominci a non pagare i lavoratori o a non versare contributi, il risparmio sui costi di produzione diventa certo.
Oltre al Canada, la stessa questione vale per gli Stati Uniti, dove ancor di più c’è una visione su come si fa agroalimentare completamente diversa, anche nella filosofia di base. Basterebbe guardare alla filiera dei polli: noi abbiamo un controllo della produzione che ha diverse tappe e che prevede l’HACCP (Hazard Analysis and Critical Control Point). Nel caso americano il sistema è diverso e la produzione è più libera, ognuno ha una certa libertà di gestire la filiera, salvo poi utilizzare la disinfezione chimica con la conegrina prima della commercializzazione. Il problema è che senza un controllo sugli animali, sul loro benessere, sulla qualità delle varietà, del luogo di produzione, non esiste filiera controllata in modo strutturato ed efficace.
Mentre in Europa ci danniamo la vita per avere allevamenti sempre più salubri e sostenibili, cosa comunque complicata perché la stessa idea di produzione industriale di cibo, e di carne in particolare, di fatto presenta rischi, in altre parti del mondo non si pongono il problema, permettendo così di raggiungere costi di produzione molto bassi, cosa che senza un’educazione dei consumatori rischia di far subire ai nostri agricoltori, che sulla qualità investono e per questo i loro prodotti costano di più, impatti economici consistenti.
Quella del cibo, da noi, è una cultura che ancora esiste, è radicata, ma che rischia di sgretolarsi, grazie anche a grandi accordi che dicono di voler favorire l’export, ma questo significa beneficiare solo poche grandi imprese, determinando, però, come contropartita l’apertura dei nostri mercati a prodotti a basso costo che colpirebbero piccole e medie imprese che come mercati di sbocco guardano solo all’Italia o al massimo – ma anche qui in piccole percentuali – all’Europa.
RDG: Nel corso degli ultimi anni si sta delineando in agricoltura una progressiva semplificazione del mercato: fusioni, accorpamenti di grandi imprese. Cosa può significare per le produzioni locali?
CS: Bisognerebbe pensare a cosa cambia, come valore aggiunto per le comunità locali, avere tante piccole imprese diffuse sul territorio oppure poche grandi imprese basate in luoghi magari inaccessibili. In questo modo non solo concentri il mercato e la ricchezza, ma anche le competenze.
Se in ogni provincia c’è un’azienda agricola che ti permette di entrare in contatto con la produzione, di capire come funziona, anche la cultura ne viene profondamente influenzata. Le conseguenze dell’accentramento spesso vanno molto oltre a un semplice guadagno economico.
Basterebbe guardare a ciò che è successo nel giornalismo con le agenzie di stampa locali, che sono state gradualmente soppiantate dalle grandi major, questo ti permette di sapere tutto rispetto all’estero, ma non capisci più cosa accade vicino a te. E questo accade anche in agricoltura, con l’aggravante che se si parla di cibo il rischio è quello di una perdita di una competenza che ci serve tutti i giorni, tre volte al giorno.
L’accordo Bayer-Monsanto è veramente il simbolo del male, è la chiusura del ciclo: faccio mie le sementi e la genetica, le manipolo in base ai miei interessi, produco e diffondo le sostanze chimiche che servono per produrre, ma poi sempre io, che sono Bayer e sono una farmaceutica, produco i medicinali che servono a curare i danni di un’alimentazione e una produzione sbagliate.
È una cosa preoccupante e glielo abbiamo lasciato fare. A questo punto bisognerebbe almeno pretendere chiarezza dai governi sulle loro politiche, a cominciare dalla messa fuori legge definitiva del glifosato.
RDG: Come può la società civile opporsi a una deriva che vede l’agricoltura sempre più come un potenziale asset finanziario?
CS: Mi sto convincendo che bisogna ripartire dall’abc, portando l’educazione ambientale e alimentare nelle scuole, parlando con i bambini, con le persone. Bisogna che queste competenze ritornino a essere diffuse. Penso, comunque, che un grande passo avanti sia stato fatto, basterebbe pensare agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando i pionieri venivano guardati in modo strano, ma se si pensa a tutti quelli che hanno resistito (e sono molti, a cominciare dalla Cooperativa Gino Girolomoni, e alle tante realtà del biologico, la stessa Slow Food), a qualche decennio di distanza, abbiamo una situazione molto migliorata. Abbiamo leggi sull’etichettatura, i Gruppi di Acquisto Solidale, i mercati contadini. Il successo che ha il cibo passa anche per l’intrattenimento televisivo, e tutto ciò dimostra che non è solo moda o interesse economico.
In Piemonte, grazie a Slow Food, è nata l’Università di scienze gastronomiche, che ha ricevuto il via libera del ministero per avere una classe di laurea dedicata; si tratta di un altro riconoscimento importante e che viene messo a disposizione di tutti.
Tanti passi sono stati fatti, ma ora l’impegno è ancora più forte per contrastare un’ignoranza diffusa, data dal fatto che la trasmissione orale, dai nostri nonni, si va via via interrompendo non permettendo ai giovani di poter beneficiare dell’esperienza di generazioni. Per questo il ruolo della divulgazione diventa fondamentale, perché permette di ricostruire le competenze, quella coscienza sul valore profondo del cibo.
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Cinzia Scaffidi: laureata in Filosofia con indirizzo storico, ha lavorato per una ONG di cooperazione internazionale allo sviluppo e scritto su riviste di vari settori. Dal 1992 al 2015 ha fatto parte dello staff di Slow Food, inizialmente dirigendo la rivista che veniva inviata ai soci italiani, quindi coordinando il Premio Slow Food per la Biodiversità e poi il meeting Terra Madre. Nel 2005, su sua proposta, è nato il Centro Studi di Slow Food, da lei diretto per dieci anni. Dal 2015 opera come free lance nell’ambito del giornalismo, dell’insegnamento, della formazione e della consulenza per le aziende, occupandosi delle “global issues” legate al cibo. Ha fatto parte del Consiglio Internazionale di Slow Food dal 2003 al 2012; del Consiglio Nazionale di Slow Food Italia dal 2010 a luglio 2018; del comitato esecutivo di Slow Food Italia dal 2014 a luglio 2018. Autrice di diversi saggi, il suo ultimo lavoro è: Che mondo sarebbe. Pubblicità del cibo e modelli sociali (Slow Food editore, 2018).
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