Guerra in Libia. Serraj al tramonto. Per Usa e Russia è un inutile orpello
Libia. L’Italia è più spettatrice che protagonista
In Libia è in corso il «Benghazi Championship», come gli inglesi negli anni ’40 chiamavano con tragica ironia la logorante battaglia del Nordafrica fatta di avanzate improvvise e ritirate repentine. Si prepara, dentro e fuori l’ex colonia italiana, il riassetto degli interessi libici che dovrà decidere la spartizione in zone d’influenza di un Paese che non sta più insieme da un pezzo. Ma ci vorrà tempo: nella primavera nordafricana dei generali non c’è ancora un vincitore.
Una cosa è certa: Stati Uniti e Russia non vogliono all’Onu una tregua maldestra che per Khalifa Haftar può significare una battuta d’arresto fatale, favorevole agli islamisti di Tripoli e a Misurata.
Il generale, al quale Trump ha telefonato nella sua qualità di campione della «lotta al terrorismo» e candidabile a entrate nella «Nato araba» con Al Sisi, dovrà quindi badare soprattutto a mantenere la retrovia in Cirenaica e gli ambiti pozzi di petrolio conquistati nel Fezzan. Un petrolio che tra l’altro non può esportare, se non clandestinamente, per via dell’embargo. E un generale senza soldi è un generale dimezzato.
I suoi alleati, l’Egitto, gli Emirati e l’Arabia Saudita, insieme a Russia e Francia, hanno investito su di lui ma forse non sono troppo convinti delle sue capacità o non vogliono che acquisisca troppo potere. Siamo ancora in una fase in cui una Libia divisa tra interessi contrastanti di attori regionali e internazionali è più facile da manovrare di una Libia unita.
Un altro fatto assodato è che il premier Fayyez al Serraj è vicino al capolinea, nonostante le dichiarazioni apparentemente favorevoli di Pompeo, Le Drian, i due ministri degli Esteri di Usa e Francia, e dello stesso segretario alla Difesa americano pro-tempore, Pat Shanahan: è un figurante in mano alle fazioni che rilascia dichiarazioni deliranti come quelle sulla marea di profughi che potrebbero arrivare in Italia. Dichiarazioni afferrate al volo dal nostro governo, insieme all’allarme terrorismo, per dare una prova ulteriore delle sue divisioni interne: lo specchio libico riflette immagini assai deformate dei nostri politici. Molta retorica e poca sostanza.
Se Serraj resta al suo posto è soltanto perché quelli di Misurata, la vera forza militare in campo per il governo di Tripoli, lo possono manovrare come vogliono, ben sapendo che i suoi sponsor, l’Onu, l’Italia, la Turchia e il Qatar, non hanno al momento carte migliori. Ma Usa e Russia di Serraj e delle milizie islamiste che lo appoggiano non ne possono più, lo ritengono un inutile orpello.
Lo si è capito quasi subito quando i marines sono decollati in hovercraft dal bagnasciuga di Tripoli lasciando in mare una scia di schiuma e sulla terra il campo libero a Haftar. Il 9 aprile scorso Trump ha ricevuto il generale egiziano al Sisi alla Casa bianca e si è fatto convincere che era arrivato il momento di sostenere il colpo di mano Haftar, tra l’altro cittadino americano, mentre il 14 aprile Haftar ha incontrato Al Sisi al Cairo quando la sua offensiva aveva però già perso l’effetto sorpresa e lo slancio iniziale. Anche al Cairo forse adesso si fanno due conti: meglio tenerlo a fare il guardiano della Cirenaica che di una Libia complicata da conquistare.
Mosca, che ha ricevuto almeno tre volte il generale, non vede l’ora di vederlo vincitore, anche se pure i russi hanno qualche dubbio sulle sue capacità. Sul terreno la Russia ha i suoi uomini, come altre potenze internazionali e locali, ma Haftar non è paragonabile ad Assad in Siria. Il cavallo libico è assai meno prevedibile e razionale.
Non cambia però il problema di fondo. Un ampio fronte internazionale intende far fuori gli islamisti di Tripoli. Fayez al Serraj al potere lo vogliono in pochi. Gli stessi libici che a parole lo sostengono hanno esitato fino all’ultimo a intervenire per contrastare il generale Haftar, in avanzata sul terreno da almeno un paio di mesi. C’era tutto il tempo per preparare le difese. Le milizie di Misurata hanno piazzato vicino a Serraj un vice, Meitig, imparentato con i capi e le famiglie che dominano la città. Quelli al fianco di Serraj difendono gli interessi della loro clan e della loro città, non lui.
L’errore di Haftar è stato quello di credere che Tripoli sarebbe caduta nelle sue mani come una mela matura. Ha sopravvalutato la sua forza. Adesso bisogna combattere un tipo di guerra che i libici, maestri di scorrerie, non amano davvero. Non si sa se Haftar riuscirà in questa guerra lampo, ormai divenuta di stallo, oppure ci proverà con qualche altro colpo di mano, accompagnato dai tentativi di convincere qualche fazione a passare dalla sua parte. La campagna acquisti del «Benghazi Championship», nel nostro strategico cortile di casa, è appena cominciata. Noi siamo più spettatori che protagonisti.
* Fonte: Alberto Negri, IL MANIFESTO
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